III

Pietro Metastasio

1. La vicenda biografica

Nella vita del Metastasio si distinguono esattamente tre periodi, corrispondenti ad altrettante fasi della sua arte: il periodo romano, che fu solo di avvio e, in parte, di apprendistato (fino al 1711), quello napoletano, centrale, non solo cronologicamente, per la scoperta e la definizione della sua poetica (1712-1726), quello viennese – seguíto ad una seconda, breve dimora romana – assai lungo, e quindi coincidente per un buon tratto con la parabola centrale e terminale dell’artista (1730-1782).

Pietro Trapassi nacque a Roma (in via dei Caprettari, presso Campo dei fiori, uno dei luoghi piú popolari della città), il 3 gennaio 1698, da Felice, un modestissimo negoziante di Assisi che era stato soldato pontificio, e dalla bolognese Francesca Galastri. Suo padrino di battesimo fu il cardinale Pietro Ottoboni, che poi si occupò della sua prima istruzione.

Pietro fu verseggiatore precocissimo, tanto che a dieci-undici anni attirò su di sé l’attenzione del Gravina, che lo prese sotto la sua protezione e si assunse l’incarico di educarlo (fu il Gravina, com’è noto, a grecizzare il suo cognome in Metastasio). Già in quell’epoca il fanciullo era conteso dai numerosi salotti romani, dove letterati e dame lo incitavano ad improvvisare versi su temi obbligati[1].

Nel 1712 il Gravina condusse il suo pupillo a Napoli e quindi a Scalea, in Calabria, per affidarlo a Gregorio Caloprese (che era già stato suo maestro) affinché venisse istruito nelle discipline filosofiche: compito che il Caloprese assolse di buon grado, dando al suo insegnamento una direzione prevalentemente cartesiana.

Tornato a Roma, tra i sedici e i diciassette anni, il Metastasio prese gli ordini minori e attese agli studi di giurisprudenza, ma senza trascurare per questi la diletta poesia, ed anzi preoccupandosi di pubblicare le sue prime opere (la tragedia Giustino, l’idillio epico Il convito degli dei ecc.): ciò che avvenne appunto a Napoli nel 1717.

Il 6 gennaio 1718 il giovane poeta fu colpito dalla prima sciagura: la morte del suo amato maestro, il Gravina. Questi lo aveva istituito erede della sua biblioteca e di un capitale di circa 15.000 scudi romani: ma nacquero liti con altri condiscepoli per la spartizione della somma ed il poeta, trovandosi ben presto in serie difficoltà economiche, dovette pensare a trovarsi una adeguata sistemazione. Piú volte tentò, ma sempre inutilmente, di impiegarsi presso la corte papale.

Frattanto era stato accolto in Arcadia col nome di Artino Corasio. Vi fece il suo ingresso recitando La strada della gloria, un’elegia in memoria del maestro scomparso.

Nel ’19, fallito il progetto di nozze con Rosalia Gasparini, figlia del rinomato maestro di musica Francesco Gasparini, il Metastasio fissò la sua dimora a Napoli anche per sfuggire all’odio che gli arcadi nutrivano contro di lui come discepolo del Gravina[2].

A Napoli era intenzione del poeta di esercitare l’avvocatura e, infatti, trovò lavoro nello studio dell’avvocato Giovanni Antonio Castagnola che, secondo una leggenda, sarebbe stato fiero nemico dei poeti e della poesia e avrebbe fatto promettere al Metastasio di non scrivere piú versi. Ma – ci sia o no del vero in questo racconto – il Metastasio seguitò a «frequentare il Parnaso», tant’è vero che nel ’20, per le nozze del principe di Belmonte Pignatelli con la principessa Pinelli di Sangro, componeva un epitalamio e il dramma pastorale Endimione. E, l’anno dopo, faceva rappresentare, per il compleanno dell’imperatrice d’Austria, la cantata Gli Orti Esperidi con musica di Nicola Porpora, che, nella parte di Venere, fu interpretata dalla celebre cantante romana Marianna Benti, sposata a Domenico Bulgarelli: un incontro di capitale importanza nella vita del poeta. Alla Bulgarelli, piú nota come «Romanina», egli infatti si legò di lungo e affettuoso sentimento e a lei dovette anche la spinta ai primi grandi successi.

Nel suo salotto ebbe modo di conoscere i grandi maestri della scuola operistica napoletana come Pergolesi, Scarlatti, Vinci, Porpora e celebri cantanti come il bolognese Carlo Broschi, detto il «Farinelli», che divenne poi suo grande amico. Ricevuta un’accurata preparazione musicale dal Porpora, stimolato dal particolare ambiente culturale napoletano e dagli incitamenti appassionati dell’amica, il Metastasio scrisse, per il carnevale 1724, il suo primo vero melodramma, Didone abbandonata, che fu rappresentato al teatro San Bartolomeo con musica di Domenico Sarro e interpretato con enorme successo dalla Bulgarelli.

Fu questa la prima tappa dell’ascesa trionfale del Metastasio. Mentre la Didone seguitava a mietere successi a Venezia e a Roma, egli era già alle prese con un nuovo lavoro, il Siroe, musicato dal Vinci e messo in scena nel ’26 al teatro San Giovanni Crisostomo di Venezia, ancora per l’interpretazione della Romanina.

Nel ’27 il Metastasio è di nuovo a Roma, dove, nel giro di pochi anni, scrive i melodrammi Catone in Utica (1727), Ezio (1728), Semiramide riconosciuta e Alessandro nelle Indie (1729), Artaserse (1730), l’azione sacra Per la festività del SS. Natale e la festa teatrale La contesa de’ Numi.

Ed ecco che il 31 agosto 1729, per interessamento della contessa D’Althann, ricevette dalla corte di Vienna l’invito a succedere allo Zeno nella carica di poeta cesareo. L’invito giunse graditissimo: il poeta arrivò a Vienna il 17 aprile 1730, e fu accolto con vive dimostrazioni di stima e di affetto. Prese alloggio in casa del napoletano Antonio Martinez, dove rimase fino agli ultimi giorni della sua vita e, nel luglio dello stesso anno, fu ammesso all’udienza dell’imperatore Carlo VI.

Il periodo viennese comprende ben cinquantadue anni e trascorse tranquillamente soprattutto durante il regno di Carlo vi, grazie anche all’affettuosa protezione di Marianna Pignatelli, vedova del conte D’Althann: la «Marianna seconda», com’ebbe a definirla argutamente il Carducci. Affetto, questo per la contessa, che non offuscò del tutto il sentimento per la prima Marianna, se sono sincere le parole di dolore che il poeta scrisse in occasione della triste notizia della morte della Romanina (1734), la quale lo aveva lasciato unico erede di un ricco patrimonio. Eredità, però, che il Metastasio ritenne di non potere accettare (per ragioni convergenti di decoro e di intima onestà), rinunciandovi in favore del marito della morta amica[3].

La D’Althann era una donna intelligente e sensibile che rese gradito al Metastasio il soggiorno viennese, alternandolo con quello in una sua villa in Moravia, dove il poeta l’accompagnava. Intorno alla loro relazione son corse molte voci: si raccontò anche (ma è certamente leggenda) che si fossero legati segretamente in matrimonio.

Comunque il decennio 1730-1740 fu per il Metastasio fecondissimo, se egli compose allora ben undici melodrammi, dall’Adriano in Siria all’Attilio Regolo, piú oratori e azioni teatrali.

Nell’ottobre 1740 morí Carlo VI, e fu per il poeta perdita dolorosa. Non che Maria Teresa fosse meno affettuosa e prodiga d’onori verso di lui, «son ancien maître», ma i tempi cambiavano, la vita di corte si faceva meno spensierata e festosa a causa delle continue guerre. Nel ’55 morí anche la contessa D’Althann e il Metastasio, che prima di quell’anno aveva scritto altri pochi melodrammi (Ipermestra, Il re pastore, L’eroe cinese, Nitteti), sentí esaurirsi del tutto l’ispirazione. Già alla Pignatelli, il 4 gennaio 1751, aveva scritto:

Il mio costante commercio di tanti anni con le Muse è ormai piú tosto amicizia che tenerezza. Io conosco tutti i loro capricci, esse non ignorano alcuna delle molte mie imperfezioni. Io le lascio in pace quanto è possibile: esse non mi stuzzicano che per inavvertenza: e se talvolta ci accarezziamo, è piú costume che affetto.[4]

Negli ultimi anni non compose altri melodrammi che Il trionfo di Clelia (1765), Romolo ed Ersilia (1765) e il Ruggero (1771), insieme con altri, piú numerosi, componimenti minori, tra i quali il poemetto I voti pubblici e le ottave La pubblica felicità. Nel frattempo attendeva anche, e assai fruttuosamente, allo studio delle poetiche di Aristotele e di Orazio.

Sul finire dell’80 moriva anche Maria Teresa e la vita di corte, con l’avvento del riformatore Giuseppe II, divenne ancor piú difficile per l’indole delicata e tradizionalista del Metastasio.

Morí egli, dunque, amareggiato, due anni dopo la scomparsa dell’imperatrice, il 12 aprile 1782, nella casa della famiglia Martinez il cui affetto (e in ispecie quello della cosiddetta «terza Marianna», la giovane figlia del suo ospite) aveva confortato la sua estrema vecchiaia.

2. Metastasio e l’epoca arcadico-razionalistica

L’animo melodrammatico arcadico trionfa nella poesia del Metastasio, cosí come già nei modi della sua esperienza vitale e nella sua poetica esplicita ben si conferma una interpretazione personale delle condizioni spirituali dell’epoca arcadico-razionalistica nel loro valore piú medio e diffuso e nella loro tensione all’espressione poetica. In quell’epoca il Metastasio è saldamente inscritto e tale sua posizione è comprovata nella sua stessa incomprensione degli sviluppi piú profondi e rinnovatori, verso l’illuminismo e il preromanticismo, della seconda metà del secolo.

Diagnosi dell’animus metastasiano che, anzitutto, trova un materiale eccezionalmente ricco e probante nell’abbondantissimo epistolario. Da esso si ricavano alcuni tratti essenziali del temperamento del poeta: in primo luogo la sua impostazione vitale fra riserbo e controllo e una fondamentale fiducia nel rapporto, nel dialogo, nella socievolezza, nella comunicazione e nel dovere del singolo, rispetto alla «pubblica felicità». In una lettera all’Adami del 29 aprile 1757 egli scrive:

Io credo e sostengo che

non meritò di nascere

chi vive sol per sé.

Ed in conseguenza di questo dovere dell’umanità mi sono studiato tutta la mia vita di evitare l’interno rimorso di essere inutile ai miei simili potendo fare il contrario.[5]

Parimenti è testimoniata la sua salda adesione alla prospettiva primosettecentesca di una civiltà legale e non arbitraria in cui gli individui hanno riacquistato una securitas ben diversa dal disperato abbandono del singolo alla violenza e all’arbitrio dei potenti e prepotenti di età barbariche o feudali e semi-feudali per le quali egli denunzia quel chiaro orrore che è tipico della sua epoca. Posizione che egli decisamente afferma nella lettera al fratello del 9 febbraio 1767[6] e che coerentemente lo porta ad esaltare un ideale governo razionalistico-paternalistico, il quale sembra realizzarsi per lui in quello di Carlo VI e poi di Maria Teresa, «madre» e «padrona» dei suoi sudditi. Da ciò la sua reazione agli sviluppi illuministici del razionalismo che egli considerò come aberrazioni da un retto uso della ragione. Come nello sviluppo della sensibilità preromantica egli vide una deviazione dall’uso della natura, un tradimento del reciproco controllo ragione-natura, un prevalere morboso di sentimenti empi e funerei, cosí l’illuminismo gli sembrò pauroso avvio di ritorno al disordine e alla licenza di epoche precedenti a quella da lui amata e poeticamente interpretata.

Deve essere dunque ben chiaro il limite che trattiene il Metastasio tutto entro la temperie arcadico-razionalistica: limite e adesione che lo porterà sempre, nella vecchiaia, a rimpiangere quell’epoca e a farsene lodatore e conservatore persino acido e risentito come nella difesa del suo vero mondo storico, sentimentale e poetico. Donde certi riesami della sua stagione napoletana e la critica delle posizioni piú avanzate antigesuitiche, anticuriali e foriere di pensiero «libertino», già vive nell’ambiente napoletano dei primi decenni del secolo.

Evidentemente quei giudizi senili non combaciavano con la precisa situazione del giovane Metastasio, sulla quale purtroppo non possediamo che scarsissimi documenti, sufficienti tuttavia a dimostrarci che dové essere assai piú spregiudicata e influenzata dagli elementi vivi della cultura napoletana, quali si possono ben riconoscere nella descrizione critica del libro del Badaloni[7] e nella sua individuazione del côté degli illuminati e del Gravina. Basti almeno ricordare, nella Morte di Catone, l’accenno ad una religiosità non legata al culto e ai templi

(E poi, perché degg’io Giove superno

negli aditi cercar, se il trovo espresso

ovunque mi rivolgo, ovunque scerno?)[8]

e l’insistenza sull’unica norma del saggio che si avvale solo del suo «lume interno», della ragione, raggio divino calato nell’uomo per trarre dal «vasto sen dell’infinito» «il seme eterno del bene oprar»[9]. Scuola di saggezza di origine graviniana la cui suggestione sull’animo metastasiano – sia pure in una versione piú mondana e cortigiana – si misura, meglio che altrove, nell’elenco di «sentenze e massime» tratte dalle opere metastasiane e aggiunte alla Vita dell’Aluigi[10].

Ma, come dicevo, nell’epoca viennese, i limiti conservativi e addirittura reazionari del poeta cesareo, la sua distinzione di una libertà moderata e inscritta in un ordine terreno e provvidenziale saldo e statico, si vengono profilando con progressiva chiarezza. Sicché nella lotta antigesuitica, egli, non «filogesuita», vedeva ragioni ed obbiettivi piú vasti e pericolosi e addirittura l’avvio ad una «anarchia temporale e spirituale»[11] che egli veniva presagendo e prefigurando con foschi colori; e, in genere, di fronte ad ogni fermento innovatore il suo atteggiamento è fermamente reazionario, come dimostrano ampi passi dell’epistolario. In essi l’antilluminismo metastasiano prende due fondamentali direzioni: una di grave deplorazione contro i progressi dell’empietà e della licenza[12]; l’altra di diagnosi satirica della piú lata situazione di costume: come là dove denuncia il pericolo di fare educare la nobiltà viennese da precettori frivoli e liberi pensatori francesi[13], ovvero manifesta la sua antipatia per la filosofia del commercio[14], rivelandoci ancora una volta la sua fedeltà a ideali di tipo fisiocratico dell’epoca arcadica, e soprattutto il rimpianto del letterato arcade per l’abbandono della «bella letteratura» a favore dell’utilitarismo delle scienze e delle attività economiche e militari.

L’una e l’altra direzione rinviano a una centrale posizione arretrata nel tempo fino agli ideali medi (già usufruiti in una direzione prevalente di ordine, di prudenza, di tranquillità) dell’età arcadico-razionalista del primo Settecento. Rinviano, cioè, alla nozione metastasiana di «necessaria società», di «regole che sono figlie della libertà medesima, che la dirigono, non la distruggono e che ne limitano una parte per non perderla tutta».

Sempre sulla base della sua formazione il Metastasio reagisce – con forza anche maggiore di quella dispiegata contro la letteratura di tipo didascalico-illuministico – contro gli svolgimenti della sensibilità preromantica. Sintomatiche, in questa direzione, una lettera al Rovatti (che gli aveva inviato delle poesie «sepolcrali»)[15] e una al Bottoni (noto traduttore delle Notti di Young)[16], in cui il Metastasio contrappone al gusto della poesia sepolcrale la serenità del saggio che ama la socievolezza, la vita e le sue offerte piacevoli. Tema che trova chiara esposizione nella nota paginetta sull’inverno moravo e sul piacere delle varie stagioni, che è motivo di raccordo con un tema tipicamente arcadico (ripreso poi, a vari livelli, in tutto il Settecento europeo letterario e musicale, ma costitutivo dell’edonismo e della «saggezza» idillica dell’Arcadia)[17]:

Abbiam fin ora goduta, e qui ed in Frain, la piú ridente stagione che potesse desiderarsi: ma da quattro giorni in qua è comparso inaspettatamente l’inverno teutonico con tutto il suo magnifico treno: e senza aver mandato innanzi il minimo precursore del suo arrivo. Tutto è ricoperto di neve. Il fiume, non che i laghi e gli stagni, si sono in un tratto saldissimamente gelati: ed una sottilissima auretta, spirante da’ sette gelidi Trioni, ci rende i suoi omaggi fin dentro alle nostre piú interne e custodite camere, nelle quali ci siamo fortificati. Con tutto questo improvviso e stravagantissimo cambiamento della natura io, che non era nato per la strepitosa magnificenza delle corti ma per l’oziosa piú tosto tranquillità d’Arcadia, ritrovo qui tuttavia, a dispetto degli allettamenti cittadini, moltissimo di che compiacermi. Mi diletta quell’uniforme candore che per cosí gran tratto di terreno io mi veggo d’intorno: mi piace quel concorde silenzio di tutti i viventi. Mi trattiene quell’andar ricercando con gli occhi le conosciute vie, gli alberi, i campi, i cespugli, i tuguri pastorali, e tutti quei noti oggetti, de’ quali la caduta neve ha cambiato affatto il colorito, ma conservato rispettosamente il disegno; considero con sentimento di gratitudine che quell’amico bosco che mi difendeva poc’anzi con l’ombra da’ fervidi raggi del sole or mi somministra materia onde premunirmi contro l’indiscretezza della fredda stagione; insulto con diletto all’inverno, ch’io veggo ma non provo nella costante primavera del nostro tepido albergo: ma quello di che, per impulso d’amor proprio, io piú sensibilmente mi compiaccio, è l’andarmi convincendo che al pari delle altre stagioni abbia l’inverno ancora i suoi comodi, le sue bellezze e i suoi vantaggi.[18]

Una pagina ispirata ad un edonismo non volgare, insaporito da una intensa venatura di meditazione sulla sorte degli uomini, capace di avvertirne gli elementi amari fino a certe piú risentite e pessimistiche diagnosi totali, che trovano riscontro, per esempio, nel celebre sonetto del 1733 sulla composizione dell’Olimpiade[19] e nel recitativo di Timante nella scena 2 del III Atto del Demofoonte:

Perché bramar la vita? e quale in lei

piacer si trova? Ogni fortuna è pena;

è miseria ogni età. Tremiam, fanciulli,

d’un guardo al minacciar; siam giuoco, adulti,

di Fortuna e di Amor; gemiam, canuti,

sotto il peso degli anni. Or ne tormenta

la brama di ottenere; or ne trafigge

di perdere il timor. Eterna guerra

hanno i rei con se stessi; i giusti l’hanno

con l’invidia e la frode. Ombre, deliri,

sogni, follie son nostre cure; e quando

il vergognoso errore

a scoprir s’incomincia, allor si muore.

Brano, quest’ultimo, che implica uno scandaglio razionalmente coerente e appuntito sull’esistenza umana che permea, a ben guardare, tutto il fondo dell’opera metastasiana, sottraendola alle condizioni di un edonismo esclusivamente frivolo e letterario. Il Metastasio non discute la provvidenza, non indaga a fondo sul destino degli uomini, ma ne avverte le amare pieghe come ne ama l’esito felice. Cosí il suo diagramma melodrammatico fra elegia ed idillio nasce dall’intimo del suo animo e della sua visione vitale: e in poesia ciò che nella lettera sopra citata è piú celato, e pur traspare, si espande nella continua vibrazione ondeggiante dei personaggi fra timori e speranze, fra pessimismo e ottimismo, sotto la spinta di un destino che alterna lusinghe e minacce e solo alla fine rivela il suo volto provvidenziale-razionale.

Dalla lettura dell’epistolario risulta, dunque, un ritratto dell’uomo, ben coerente come sostegno di alcuni atteggiamenti e temi del poeta e molto interessante per la sua situazione personale-storica. Esso, inoltre, rivela, già sul piano artistico, il suo valore di prosa che non è stato mai sottolineato come si dovrebbe, ad ampliare la nostra intera conoscenza e la nostra intera valutazione dell’arte metastasiana.

Ricco di veri e propri piccoli capolavori arcadico-razionalistici, l’epistolario metastasiano si impone anzitutto al lettore per la sua estrema lucidità, per la sua capacità di dare evidenza nitida e distinta alle cose riferite in un taglio riassuntivo e miniaturistico perfetto. Basti ricordare, in proposito, su di un piano piú esterno, la lettera in cui il Metastasio prepara un complicato trasferimento di cavalli da Vienna alla Spagna precisandone l’itinerario e le condizioni di viaggio[20], o, su di un piano piú chiaramente artistico, quelle numerose in cui si dà notizia e relazione di battaglie delle guerre di successione polacca e austriaca e poi dei Sette anni, in cui, sulla spinta di una curiosità nitida e vivace (che prevale sull’interesse del buon suddito austriaco[21]), il gusto della precisione e del movimento, in una misura breve e riassuntiva, si esalta fino al risultato di una carta strategica in miniatura, animata, colorita e limpida, o di un movimento scenografico minuto, fervido, piacevolissimo[22].

Mentre, sul piano della capacità di costruire «personaggi» vivi e insaporiti di humour, si ricordi almeno il modo indiretto con cui dalle lettere al fratello Leopoldo e alla contessa Orzoni-Torres, emergono in controluce le figure di questi due corrispondenti: il fratello vanesio e velleitario, la contessa ipersensibile e portata a facili atteggiamenti pessimistici.

E si rilegga almeno la gustosa lettera al fratello che vuol dimagrire per ragioni estetiche:

Spero che, molto prima dell’arrivo di questa, vi avrà lasciato in pace il vostro illepidissimo morbo attico. Se volete seguire il mio avviso, piú tosto che divenire snello per via cosí fastidiosa lasciate pure che pinguis aqualiculus propenso sesquipede extet. E pregate il Cielo come il buon Fiacco pingue pecus domino facias et caetera, praeter ingenium. Alla fin fine una bella pancia, ben organizzata e presentata maestosamente a tempo e luogo, paga sempre con usura di rispetto la picciola fatica di chi la porta. Se non foss’altro che quell’idea d’opulenza che vi muove dovunque comparisce! E poi fate un poco di riflessione a certi personaggi gravi e venerabili: troverete che la maggior parte ingombrano un enorme sito con la loro circonferenza. Che rimarrebbe a tanti priori, provinciali, guardiani, generali e simili altri valent’uomini, se si togliesse loro l’invidiabile merito di quelle solenni pancie graduate? E voi siete cosí dolce da posporre una bella pancia ad un inquietissimo tenesmon! E forse in grazia della parola greca! O Coridon! Coridon! A proposito di pancia, mi rallegra che abbiate fatto conoscenza col reverendissimo padre Chiaberge.[23]

Mentre, con un variare di personaggi-Leit Motive che anima la partitura generale dell’epistolario, le lettere ad un altro corrispondente fondamentale, il cantante Farinelli, si aprono a toni festosi e scherzosi, quasi riecheggianti la letizia giovanile del comune soggiorno napoletano e romano che certo costituí nella memoria attiva del poeta la riserva piú ricca di esperienze vitali, la zona fervida della gioventú di cui ritorna l’eco nel ricordo suscitato da un minimo accenno, come il poeta diceva in un’altra bella lettera al Filipponi, del 5 marzo 1746:

[la vostra lettera] risvegliando nell’animo mio una folla di care e ridenti memorie di accademie, passeggiate, cicalate, dispute, simposii, il Vomero, Chiaia, Strada Giulia, Porta del Popolo, ed infinite altre somiglianti, è andata ricercando ogni piú riposta e piú sensibil parte del cuor mio.[24]

Proprio sul tema del ricordo può emergere un carattere fondamentale dell’animo e dell’arte metastasiana. Il ricordo, per quanto tenero e commovente, non si svolge in aperto abbandono e rimpianto nostalgico, in moti di esuberanza emotiva, ma commuta la sua forza in pienezza e nitidezza di rappresentazione, in forma di recupero di una scena viva, riferita come presente.

Già su questa direzione va condotta la lettura della celebre lettera sul soggiorno calabrese il cui ricordo vien suscitato da alcuni accenni della lettera del Mattei cui il Metastasio rispondeva:

Ho riveduti come presenti tutti quegli oggetti che tanto colà allora mi dilettarono. Ho abitata di bel nuovo la cameretta dove il prossimo fiotto marino lusingò per molti mesi soavemente i miei sonni: ho scorse in barca con la fantasia le spiagge vicine alla Scalea: mi son tornati in mente i nomi e gli aspetti di Cirella, di Belvedere, del Cetrano e di Paola: ho sentito di nuovo la venerata voce dell’insigne filosofo Gregorio Caloprese, che adattandosi per istruirmi alla mia debole età, mi conducea quasi per mano fra i vortici dell’allora regnante ingegnoso Renato, di cui era egli acerrimo assertore, ed allettava la fanciullesca mia curiosità or dimostrandomi con la cera quasi per giuoco come si formino fra i globetti le particelle striate, or trattenendomi in ammirazione con le incantatrici esperienze della diottrica. Parmi ancora di rivederlo affannato a persuadermi che un suo cagnolino non fosse che un orologio, e che la trina dimensione sia definizione sufficiente di corpi solidi: e lo veggo ancor ridere quando, dopo avermi per lungo tempo tenuto immerso in una tetra meditazione facendomi dubitare d’ogni cosa, s’accorse ch’io respirai a quel suo Ego cogito, ergo sum: argomento invincibile d’una certezza ch’io disperava di mai piú ritrovare.[25]

Quadro nitido, affettuoso, pieno, in cui il ricordo riaffiora con le condizioni di un lieto presente ed evita ogni ingorgo sospiroso, sí che, poi, la lettera si chiude rapidamente tra l’accenno ad un inizio di sopraffazione della memoria e una gentile scusa epistolare di non portar via piú tempo all’amico, che è una forma di elusione di ogni sovrabbondanza emotiva, di ogni turbamento del quadro cosí interamente delineato.

E ancora piú interessante su questa direzione è l’altra celebre lettera alla Romanina, da Vienna, sul carnevale romano, un autentico piccolo capolavoro del gusto primosettecentesco e della vocazione teatrale metastasiana, dove la nostalgia e il ricordo si commutano nella forza costruttiva di un quadro animato, preciso, incantevole, in cui ogni voce ha il suo accento e presuppone un movimento, un passo, un’impostazione di scena e di visuale:

Oggi è appunto il primo giorno delle maschere, e io son qui a gelarmi. Pure mi trattengo piacevolmente, figurandomi voi impiegata e divertita. In questo momento, che secondo l’orologio di Roma saranno le 2 ore, comincerà la frequenza de’ sonagli pel Corso. Ecco il signor canonico de Magistris, che apre l’antiporta. Ecco il signor abate Spinola. Ecco Stanesio. Ecco Cavanna. Ecco tutti i musici di Aliberti. Chi sarà mai quella maschera che guarda tanto le nostre fenestre? Fa un gran tirar di confetti, e non può star ferma. – È certo l’abatino Bizzaccari. – E quel bauttone cosí lungo che esamina tutte le carrozze, fosse mai il bellissimo Piscitelli? – Certo; senza dubbio. – Ecco il conte Mazziotti, che va parlando latino. – Ecco i cortegiani affettati vestiti di carta. – Ma che baronata è mai questa! Quasi tutte le carrozze voltano a San Carlo. – Che cosa è? – Il segno. – Presto. – Viene il bargello. – Venga, signor agente di Genova. – Non importa. – Ma se v’è luogo per tutti? – Vede ella? – Vedo benissimo. – Ma mi pare che stia incomodo. – Mi perdoni, sto da re. – Eccoli, eccoli. – Quanti sono? – Sette. – Chi va innanzi? – Il sauro di Gabrielli, ma Colonna lo passa. – Uh, Gesú Maria! – Che è stato? – Una creatura sotto un barbero. – Sarà morta certo. – Povera madre! – Lo portano via? – No, no. Era un cane. – Manco male. – Dica chi vuole, è un gran piacere la forte immaginativa. Io ho veduto il Corso di Roma dalla piazza de’ Gesuiti di Vienna.[26]

In questa lettera, scritta nei primi anni viennesi – quando l’esercizio della vita e degli affetti venne come recuperato tutto poeticamente nell’opera melodrammatica –, vita e finzione, realtà e sogno teatrale, valore della «forte immaginativa», capacità di depurare ed esaltare la partecipazione sentimentale in canto ed azione melodrammatica, sono già saldamente al centro della tensione espressiva metastasiana, con un respiro piú corto, ma con una forza e una finezza pari a quelle dispiegate nei melodrammi maggiori.

3. Elementi della poetica metastasiana

Il Metastasio, che fu artista sorvegliatissimo, e pur tutt’altro che mosso da ragioni solamente sperimentali e tecniche, ha precisato teoricamente la sua poetica solo in anni piuttosto tardi e fuori del periodo piú intenso della sua ispirata attività. Sicché l’importanza dei suoi due documenti fondamentali (l’Estratto della poetica di Aristotile e le note alla traduzione dell’Ars poetica di Orazio) e delle osservazioni al teatro greco – nonché di numerose lettere dedicate ad argomenti di poetica – si configura per lo piú come meditazione a posteriori rispetto all’opera realizzata; e tuttavia quei testi possono essere usati a verifica delle fondamentali posizioni di poetica del Metastasio e del loro accordo con generali istanze arcadiche, a parte ciò che essi possono dirci sull’acutezza della meditazione metastasiana in sede di estetica nei chiari limiti di un ampliamento moderato del regolismo classicistico.

Essenziale risulta anzitutto la delineazione dei caratteri costitutivi del poeta, in cui rifluiscono tipici elementi arcadico-razionalistici:

In primo luogo, per esser atto a divenir poeta è necessaria una naturale acuta sensibilità all’armonia, al numero ed al metro: quale è quella che s’incontra non di rado in Italia fra i rustici giovanetti e le villanelle de’ contorni particolarmente di Firenze e di Roma; i quali, non sapendo per lo piú né men leggere, ed ignorando affatto qualunque metrica legge, cantan versi improvvisi su qualunque soggetto che lor si proponga: e con la sola guida dell’orecchio non ne trasgrediscono mai gli accenti e le misure. Operazione che a moltissimi uomini di distinto ingegno, e dottrina, e provveduti perfettamente di tutte le regole del metro, riesce difficile e mal sicura se non ricorrono a contar le sillabe su le dita.

è necessaria una naturale docilità, o sia attività del cuore ad investirsi facilmente delle varie umane passioni che si vogliono in altri eccitare: effetto che non può conseguirsi da chi non le sente prima in se stesso; come di sopra ha magistralmente Orazio insegnato:

... si vis me flere, dolendum est

primum ipsi tibi. (Poet., v. 102)

è necessaria una feconda vivacità di fantasia, pronta a formarsi le immagini che, come dipinte coi colori in un quadro, vuole il poeta che gli altri veggano rappresentate nelle sue parole.

è necessaria quella sagace perspicacia, di cui vuole Aristotile indispensabilmente fornito ogni poeta: quella, dico, per la quale facilmente egli scopre certe particolari qualità, nelle quali si rassomigliano oggetti bene spesso fra loro totalmente nel resto diversi: onde egli artificiosamente scambiandogli, e valendosi dell’uno in vece dell’altro, possa formare quegl’ingegnosi translati e metafore, che sono il piú splendido distintivo del linguaggio poetico.

è necessaria una prontissima ubbidienza degli spiriti nel concorrere, secondo il bisogno, a mettere in moto ed a riscaldar la mente di quella specie di focosa agitazione che chiamasi estro, entusiasmo, o furor poetico. Dall’impeto del quale avvalorate le facoltà della mente, si rende essa capace di quelle operazioni che a lei riuscirebbero impossibili se le tentasse tranquilla. Come impossibili ad ognuno sarebbero a passo lento quei salti, che nell’impeto del corso facilmente riescono.

Ma perché cotesto efficace utilissimo impulso, che chiamasi estro, non trascenda mai i limiti, pur troppo vicini, oltre de’ quali degenererebbe in pazzia, convien aver sempre presente l’aurea sentenza d’Orazio:

Scribendi recte, sapere est et principium et fons;

cioè:

Il buon giudizio è il capital primiero

dell’ottimo scrittor;

ed a tenore di questa star in guardia che non giunga mai l’estro a turbar ne’ suoi trasporti l’equilibrio della ragione, ma che ne senta sempre l’impero. Siccome un ardente, ma bene ammaestrato corsiere, nelle azioni le piú focose, senza veruna repugnanza ubbidisce ad ogni minimo cenno del freno.

Or l’impeto e l’ardore, di cui l’estro si forma, e la placida tranquillità necessaria ai misurati giudizi della ragione, par che non possano esser prodotti che da principii opposti fra loro; e perciò difficilissimi a trovarsi congiunti in un soggetto medesimo: difficoltà donde forse nasce la rarità degli eccellenti poeti. Ai quali io non credo che sia mai raccomandata abbastanza l’attentissima cura di non abbandonarsi ciecamente all’arbitrio dell’estro: che, non ben regolato, è capace di trarci affatto fuor di cammino, rompendo quella catena, o sia connessione d’idee, la quale o espressa, o implicita almeno, convien pure che necessariamente si trovi (se vogliam che altri c’intenda) in tutto quello che da noi si parla o si scrive. I lettori e gli ascoltanti ci precedono con la mente per quella strada, verso la quale abbiam loro accennato d’incamminarci: e se noi, ingannandogli, altrove il nostro corso improvvisamente rivolgiamo, essi da noi e noi da loro vicendevolmente sempre piú allontanandoci, non siam poi abili a piú rincontrarci, se non se tardi, o non mai. E questa è una delle varie sorgenti di quella incomoda oscurità, che direttamente si oppone all’obbligo indispensabile di chi parla e di chi scrive: cioè quello di farsi intendere, tanto da Quintiliano raccomandato. Per lo piú avviene (dic’egli) che le cose che dagli uomini piú dotti si dicono e si scrivono, piú facilmente s’intendono perché la chiarezza è la principal virtú dell’eloquenza: e quanto altri è men fornito d’ingegno, tanto piú si sforza d’innalzarsi e diffondersi: siccome quei che peccano di piccola statura cercano di sollevarsi su le punte de’ piedi; ed ostentano ordinariamente maggior bravura i piú deboli. Plerumque accidit, ut faciliora sint ad intelligendum, et ludiciora multo quae a doctissimo quoque dicuntur: nam et prima est eloquentiae virtus perspicuitas, et quo quis ingenio minus valet, hoc se magis attollere et dilatare conatur: ut statura breves in digitos eriguntur, et plura infirmi minantur. Lib. II, cap. III De inst. orat. E pure non mancan di quelli che, in vece di fuggirla, cercano ed affettano, come nobile pregio e sublime, cotesta condannabile oscurità: non dissimili in ciò, a parer mio, a quei mal forniti mercatanti che han bisogno del fosco lume per facilitar lo spaccio delle loro merci imperfette.[27]

Gli elementi fondamentali dell’uomo arcadicamente destinato alla poesia sono qui lucidamente raccolti: sensibilità musicale e ritmica; docilità e attività del cuore; feconda vivacità di fantasia matrice di immagini, anch’esse comunicabili, e potere metaforico; fuoco dell’estro o entusiasmo. E, insieme con essi, con funzione regolatrice e armonizzatrice, il buon giudizio, la misura ragionevole.

Tutte le qualità del «poeta» metastasiano sono poi da considerare in relazione alla poetica del melodramma, come nuovo genere teatrale che ripristinerebbe le condizioni della tragedia greca musicale e cantata. Il Metastasio intese che il melodramma corrispondeva, proprio nel suo modulo costitutivo, a fondamentali termini del gusto e della sensibilità arcadica, e invece di rifiutarlo, come facevano i teorici maggiori dell’Arcadia, si preoccupò di configurarlo in modo che le esigenze espressive e teatrali del suo tempo non soffocassero lo sviluppo della essenziale vena poetica e melodica e che la stessa musicalità e melodia non sopraffacessero le esigenze espressive e poetiche.

Far sí che i centri espressivi e poetici non fossero sopraffatti dalla musica e che anzi questa agevolasse, attraesse e confortasse l’interna melodicità della soluzione teatrale del momento patetico fu la massima impresa del Metastasio. Non la poesia deve essere ancella della musica, come era apparso reale e inevitabile nel melodramma al Gravina, al Crescimbeni, al Martello, e al Muratori. Dal Metastasio il primato della poesia è posto fuori di discussione e la musica deve servirne e sottolinearne l’espressività, appunto secondo l’ipotesi di una situazione tipica della tragedia greca musicata e cantata in cui il Metastasio si creava un alibi classicistico e un sostegno stimolante e nobilitante per il suo melodramma cosí chiaramente moderno ed arcadico.

Partendo da questo appoggio e da quello della riforma dello Zeno (di cui però avvertiva i limiti intrinseci di rigidezza)[28], il Metastasio sostenne sempre il primato della poesia e della espressione poetico-tragica fino alla constatazione estrema di una riuscita migliore dei suoi drammi se recitati senza musica, dichiarando la sua poesia come capace di autonomia e di musica interna. E ciò che vale insieme a chiarire ulteriormente la direzione della sua poetica teatrale è il fatto che nella complessa e difficile opera del Metastasio regista dei propri melodrammi campeggia visibilmente la centrale preoccupazione espressivo-patetica del poeta del «cuore» che a tutti i collaboratori della sua opera chiede «espressività», serietà e impegno comunicativo volto a sollecitare piú che l’orecchio il cuore degli spettatori[29].

Popolarità, comunicabilità ed espressività patetica e teatrale dominano tutta la poetica metastasiana e, con essa, l’impostazione del problema del linguaggio[30] che deve essere soprattutto efficace, espressivo, elegante, melodico e chiaro. Da qui la diffidenza per il rigorismo cruscante[31], in quanto, ripresa l’assidua volontà arcadica di una distinzione del linguaggio poetico da quello prosastico, il Metastasio la fonda però su di un incontro tra aulico e popolare, tra discorsivo e musicale come forma suprema di comunicabilità ed espressività-impressività.

Da qui derivano anche l’antipatia per gli eccessi dell’«affettazione petrarchevole» e del «libertinaggio marinista»[32], e insieme la stessa limitatezza del lessico metastasiano tante volte osservata, la quale si giustifica storicamente nella preferenza del Metastasio per una espressione analitico-sintetica concentrata su alcuni temi fondamentali poetici, per la costanza e sobrietà di tono, per l’incontro di eleganza, semplicità e comunicabilità ad un pubblico vasto e medio. Sicché in quella effettiva limitazione ci sono pure una forza e una volontà di singolare capacità riassuntivo-espressiva esercitata con mezzi volutamente selezionati. Né, d’altra parte, questo linguaggio poetico, tutto valido entro il suo cerchio storico, mancò di immettersi nella storia del linguaggio poetico italiano, costituendone un capitolo importante e non ignorabile, non solo per le reazioni che suscitò, ma per la sua scuola di discorso poetico trasferito dal teatro alla lirica e all’elegia narrativa, in una zona che può giungere, in certo modo, fino al Leopardi.

Ma il Metastasio non fu solo un elaboratore di linguaggio, ché dietro quel suo tessuto linguistico, dietro i suoi moduli recitativi, vibra un effettivo se pur limitato mondo poetico, una interpretazione poetica della situazione degli uomini nelle sue condizioni arcadico-razionalistiche.

4. La formazione della poesia metastasiana fino alla «Didone»

La premessa della formazione poetica del Metastasio è costituita dall’incontro fra il primo esercizio d’improvvisazione, come ideale corrispondenza all’essenziale presenza dell’estro, e l’educazione classicistico-razionalistica del Gravina e del Caloprese, la cui componente razionalistica appare chiara in alcuni versi improvvisati nella fanciullezza, citati dal Metastasio in una lettera all’Algarotti del 1 agosto 1751:

Da ragion se consiglio non rifiuti

ben di nuovo udirai nella tua mente

risonar que’ pensier ch’ora son muti.[33]

Lezione essenziale di cui egli conserverà alcune esigenze fondamentali: quella dell’organicità della favola, quella di una destinazione didascalica e di inserimento dell’opera poetica in una direzione di moralità (arie sentenziose), quella del componimento complesso, capace di svolgimento di favola contro la misura avara del sonettismo, quella di un linguaggio perspicuo e nitido, filtrato attraverso l’esemplarità dei classici; quella infine di tradurre idee chiare e distinte in immagini altrettanto chiare e distinte.

Fin dalle prime opere si intravede la via che il poeta seguirà fra la regolarizzazione dell’improvvisazione (le ottave del Concilio degli dei) e lo sviluppo piú studiato di una tematica graviniano-eroico-didascalica con appoggi giuridici e filosofici. Si tratta di componimenti assai goffi e faticosi, quasi sempre sentenziosi, come (nella Morte di Catone) l’esaltazione dell’eroismo dell’anima illuminata dalla ragione e tesa platonicamente alla sorte celeste.

In questa direzione già Metastasio aveva fatto un tentativo che fu un fallimento, il Giustino, in cui però già si muovono gli elementi della poesia metastasiana che repugnano alla tragedia solenne del Gravina e fanno avvertire la spinta piú genuina di toni patetici e melodrammatici, specialmente nella figura di Sofia[34], nei cui monologhi vibra il gusto delle situazioni di «perplessità», che ritroveremo sempre in seguito[35].

È evidente che nel Giustino queste premesse di tendenze metastasiane combattono non solo con una immaturità centrale, ma anche con un linguaggio e una tecnica pesanti e magniloquenti. Sicché ben si capisce come solo attraverso molteplici tentativi l’artista giunga alla mèta dell’Olimpiade e del Demofoonte.

In effetti già nel Ratto d’Europa (1717), pur nella ricerca di tipo graviniano di una musica piú severa, egli si volgeva ad esperienze piú spontanee e libere di canto madrigalesco, che confluivano in una spinta verso forme piú fluide e abbondanti. E solo attraverso queste esperienze il Metastasio poteva, lavorando di scelta, di fusione, di assottigliamento su una materia sensibile, linguistica, musicale e immaginosa piú abbondante, avviarsi alla musica nitida, al patetismo controllato, all’armonia dell’opera come corrispondenza di trama e di tessuto lirico, che contraddistingue piú chiaramente il cammino dalla Didone all’Olimpiade e al Demofoonte. Pur usufruendo del succo delle nuove letture (Tasso, Guarini, lo stesso Marino) non «graviniane», le azioni teatrali, cantate e serenate, gli epitalami del 1720-1723, mentre vengono prolungando l’esercizio di espressione musicale e immaginosa di colorito madrigalesco, insieme lentamente assicurano al suo centro uno sviluppo di patetismo melodrammatico, che si coagula in situazioni, in personaggi, in linee di parlate «gorgheggianti», ma progressivamente alimentate da una sentimentalità piú precisa, volte a funzioni piú attive nell’economia della favola.

Il Metastasio opera nel vivo della sentimentalità del suo tempo, il che spiega il successo della Didone, in cui la corrispondenza fra poeta e pubblico fu piena, assoluta, e preparò la base dello sviluppo del melodramma metastasiano, che procede con una scelta sempre piú rigorosa degli elementi costitutivi di un’opera che traduce originalmente le aspirazioni dell’epoca arcadico-razionalistica.

L’attività del Metastasio si esplica piú pienamente nella calda vita napoletana, che rimarrà sempre nel ricordo del poeta, sino ai piú tardi anni viennesi, la zona fervida giovanile, la riserva di vitalità, di popolarità, di vita teatrale piú autentica: fra lo stimolo vivo della musica, il contatto con i comici e i cantanti, lo sviluppo e l’utilizzazione delle nuove letture.

L’Endimione (1720) costituisce il primo anello nel processo di risalita al melodramma attraverso prove inizialmente piú composite e brevi, sul terreno piú propizio e facile della situazione mitologica. Il testo è contraddistinto inoltre da un pieno abbandono edonistico, che si riafferma francamente nella tematica e nel colorismo melodico degli Orti Esperidi e si complica nell’Angelica (1722) con l’elemento del recitativo espressivo e attivo che diventerà caratteristico nelle successive opere metastasiane. Nella Galatea (1723) il linguaggio melodrammatico si fa sempre piú strada, sia nella forza di suggerimenti di sfondi poetici scenografici, sia, e piú, nella capacità di graduata e complessa definizione di stati d’animo, sia nella delineazione della parlata con tipici moduli di dialogo, che costituiranno la base piú vicina alla forza nuova e geniale della Didone, con la quale il Metastasio interrompe il parallelo esercizio, negli Epitalami (1720-1723), di una lirica puramente musicale e descrittiva in cui pure si avverte la tensione di melodia in funzione di rappresentazione-azione.

La Didone abbandonata è l’opera che nasce al culmine di questa tensione melodico-patetica e la risolve in un impeto di costruzione intera dentro un momento di eccezionale fervore vitale, eccitato dalla lieta vita napoletana, dallo stimolo dell’attrice, la Romanina[36], confermato e chiarito da quella presa di posizione affermativa e polemica che è il brillantissimo intermezzo L’impresario delle Canarie. Questo intermezzo si ricollega a quel tipo di intermezzo comico che, nella satira della vita teatrale, coglieva insieme un oggetto della tensione comica moderna e un aspetto della riforma arcadica da cui piú tardi, e ad un nuovo e piú forte livello di mentalità e di civiltà, trarrà spunto la riforma goldoniana. Al centro della satira dell’impresario poeta galante, della cantante presuntuosa e rozza, della madre mezzana (il mondo equivoco teatrale messo in satira dal Marcello) spuntano gli elementi chiari della polemica arcadica trasferiti sul piano teatrale e animati dalle capacità comiche del Metastasio. Polemica anzitutto contro le «arie di bravura», dispersive ed assurde in un contesto organico, di cui il Metastasio dà un esempio geniale sull’aria della «navicella» e della «farfalletta»:

La farfalla, che allo scuro

va ronzando intorno al muro,

sai che dice a chi l’intende?

«Chi una fiaccola m’accende,

chi mi scotta per pietà?»

Il vascello e la tartana,

fra scirocco e tramontana,

con le tavole schiodate,

va sbalzando, va sparando

cannonate in quantità.[37]

Nell’Impresario si affermano già le forti capacità inventive e teatrali che trionferanno nella Didone, la quale appartiene al momento della scoperta gioiosa del proprio genio poetico; e si capisce dunque come il Goldoni abbia considerato esemplare la Didone, la «divina Didone», come dice il suo portavoce Ottavio nel Teatro comico.

La Didone è, nella sua acerbità (che si riscontra negli sbalzi di tono e di linguaggio), vitale, esuberante persino, sia nello slancio della protagonista, sia nella stessa perplessità di Enea, che è pure, a suo modo, la realizzazione di un tipico stato d’animo del mondo poetico metastasiano qui portato all’estremo, fino all’involontaria comicità dell’eroe tipico metastasiano. Nella Didone l’urto fra personaggi è piú forte, piú forte il rilievo della loro tipicità, mentre questi in seguito saranno piú sfumati, piú commisurati fra loro in una comune omogeneità. Proprio in ciò si può misurare la posizione di quest’opera, premessa esuberante del melodramma metastasiano, ma opera tutt’altro che definitiva, rispetto alla norma e al modulo del melodramma «perfetto» che il Metastasio intese creare negli anni romani e nei primi anni viennesi.

Cosí certi personaggi della Didone hanno un che di piú risentito e di piú vivace. Jarba, barbarico e utilitaristico; Selene, figura tenue e malinconica di patita dell’amore, di «anima bella»; Araspe, generoso guerriero; Didone, eroina, dama ed attrice, hanno una carica vitale indiscutibile, una tipicità individualizzata, che si traduce nelle battute rapide, volitive, e si fonde con lo slancio ritmico di tutta l’opera, dove il lieto fine delle opere successive è surrogato dai modi piú scenografici e grandiosi, con cui il rasserenamento finale compare come la calma del mare, che ha prima furiosamente invaso la scena dell’incenerita Cartagine[38].

E nell’economia dell’opera la forza risentita del personaggio di Didone ha uno spicco risoluto, predomina, assorbe in sé la forza maggiore del melodramma: essa è la premessa essenziale alle piú delicate ombrose figure delle Cleonici, delle Aristee, delle Dircee e Creuse, ma insieme, con le sue connotazioni classiche e moderne, eroiche, regolari e insieme borghesi e realistiche, sembra costituire un certo anticipo di alcune figure femminili goldoniane nella loro volitività, nella loro capricciosa imperiosità, e realizza appieno l’incontro di qualità regali non mediocri («superba e bella», «son regina e sono amante»), di aspetti della bellezza, della passione, del dominio dell’amore invincibile, della fragile femminilità, di finzione e di verità umana, di analisi di sentimenti e della loro proiezione attiva in una sintesi trascinante, poetica e storica.

Personaggio davvero indimenticabile, contraddistinto da una forza personale, viva nell’imperiosità come nella coscienza della sua dedizione amorosa; ora baldanzosa, irruenta e sicura, ora volubile, trapassante dall’odio all’amore piú appassionato.

Enea è l’eroe piú «metastasiano» nel senso deteriore della parola, ma insieme il piú significativo nell’impianto di quella «perplessità» che costituirà la linea di arricchimento della poesia metastasiana quando si commisurerà piú intimamente ad un mondo di trepidazione, di complessità sentimentale ed espressiva sullo sfondo del destino. Egli è il personaggio che incarna il contrasto fra amore e dovere, fra passione, virtú «eroica» e adesione ai voleri superiori degli Dei, senza la possibilità di quella conciliazione finale che esalta nel Metastasio maturo il trionfo di natura e ragione, di disegno provvidenziale e di diritti del cuore, e dunque in una via tragica, che, a ben guardare, era una via chiusa per la vera poesia metastasiana. Chiuso nel suo schema, Enea giunge sino ad esiti involontariamente comici, come nella scena 18 del I Atto, che è pure a suo modo magistrale per il primo dispiegamento, per eccesso, della «perplessità» e per il raccourci dell’ondeggiamento, della fluttuazione della volontà presa fra il cuore e il dovere, fra la natura e la ragione:

E soffrirò che sia

sí barbara mercede

premio della tua fede, anima mia!

Tanto amor, tanti doni...

Ah! pria ch’io t’abbandoni,

pèra l’Italia, il mondo,

resti in oblio profondo

la mia fama sepolta,

vada in cenere Troia un’altra volta.

Ah! che dissi! alle mie

amorose follie,

gran genitor, perdona: io n’ho rossore.

Non fu Enea che parlò, lo disse Amore.

Si parta... E l’empio Moro

stringerà il mio tesoro?

No... Ma sarà frattanto

al proprio genitor spergiuro il figlio?

Padre, amor, gelosia, numi, consiglio!

Se resto sul lido,

se sciolgo le vele,

infido, crudele

mi sento chiamar.

E intanto, confuso

nel dubbio funesto,

non parto, non resto,

ma provo il martire

che avrei nel partire,

che avrei nel restar.[39]

In conclusione, la Didone è opera di apertura, da considerare come impianto e scoperta della dimensione melodrammatica, ispirata, novissima, ma, rispetto al cammino lungo del Metastasio, diseguale e come troppo scoperta nelle sue novità tecniche e poetiche, bisognosa di un esercizio e di un’applicazione piú misurata e complessa.

5. Dalla «Didone» ai melodrammi viennesi

Se la Didone rappresenta la forza del patetico, del modulo della perplessità, del rapporto recitativo-aria in forma di passaggio ad un’esplosione di canto, i melodrammi successivi fra il 1726 e il 1730, nati nell’ambiente romano, costituiscono una fase di lento perfezionamento, una prova e riprova di espedienti tecnici di varia congenialità. Sí che sembra che il Metastasio voglia riprendere e rivedere la formula della Didone sottoponendola ad un processo piú di attenzione che di ispirazione.

Cosí nel Siroe (1726) il recitativo si fa piú analitico e concatenato, cresce la capacità delle ricapitolazioni di situazioni antecedenti (mentre nella Didone la situazione era colta piú direttamente ed esclusivamente nel presente), e coerentemente cresce l’analisi dei sentimenti, la sottile meditazione-reazione dei personaggi di fronte al loro destino, anche in rapporto alla risoluzione-tensione del lieto fine.

E se nel Catone in Utica (1728) la piú genuina evoluzione dell’elemento patetico viene compressa e turbata dal tentativo di dare sviluppo dominante alla velleità tragico-virtuosa fino al suo esito tragico, e nell’Ezio, dello stesso anno, pur scartando il finale tragico il Metastasio tenta un piú complicato intreccio di toni eroici, bellicosi, di intrighi cortigiani e amorosi, il risultato di tali esperienze fallite (e pur non prive di particolari acquisti in sede di tecnica teatrale) era un piú sicuro ritorno al predominio dell’elemento amoroso a cui gli elementi virtuosi ed eroici, gli intrighi politici e cortigiani si subordinavano nella loro piú efficace funzione di base di rilievo e di nobilitazione del diagramma patetico e magari (poiché la scelta è sempre in ambienti nobili e regali) con la possibilità di una verifica della «comune» vita del cuore in personaggi nobili e non comuni. Poiché l’elemento eroico non è assente dalla poetica e dalla poesia metastasiana e vi ha una sua funzione non solo retorica e velleitaria, quando esso è attivo in funzione della linea poetica del patetico, e rifluisce concretamente in una elevazione generale del tono entro cui circola l’incantevole voce del cuore e si snoda la favola della difficile felicità amorosa. Ma scade in retorica fastidiosa e a volte ridicola (anche se sempre contraddistinta da abilità drammatica e di linguaggio) quando pretende al predominio nel melodramma. Avvertimento da fare già all’altezza di questo primo tentativo, per una retta interpretazione storico-critica che tenga conto della realtà dei risultati e della impostazione centrale della poetica metastasiana quale l’abbiamo già esaminata nelle precedenti pagine.

Sicché nella successiva Semiramide (1729) si dà piú risalto alla psicologia amorosa, che qui apre la via ad alcuni essenziali procedimenti metastasiani, come la curva patetica che approda ai riconoscimenti e trasalimenti del cuore implica un’adeguata ricerca del verso e del discorso melodrammatico che scarta le battute frontali a un sol verso e giunge all’intreccio di voci affannose, tormentate e perplesse entro un sol verso (addirittura cinque battute in un verso solo).

Su questa via piú sicura e congeniale si muove ancor meglio l’Alessandro nelle Indie (1729), dove domina l’azione patetica culminante nel trionfo di ragione e natura, di virtú e piacere. I personaggi centrali, Poro e Cleofide, piú del falso protagonista Alessandro, sono figure veramente metastasiane, in cui l’amore e la gelosia si intrecciano e si complicano con l’eroismo; e il melodramma si svolge ricco di motivi di azione patetica che comincia ora a sgorgare in forme piú eleganti e semplici rispetto all’affermazione piú ibrida e impetuosa della Didone. E i toni melodico-amorosi trovano la loro resa piú sicura nel recitativo capace di lucidissima ricapitolazione e di prefigurata azione e si snoda lungo e sinuoso per accogliere la densità e l’articolazione limpida del linguaggio del cuore, scartando sia le battute in un sol verso sia lo spezzettamento concitato eccessivo provato nel melodramma precedente e creando un’unione piú organica con le arie.

Ma il risultato piú notevole di questa fase di tentativi si ha nell’ultimo melodramma romano del 1730, l’Artaserse. Certo esso ha chiari difetti di schematismo, di cadute goffe a questi legate, ma già l’azione sostiene e provoca con sufficiente efficacia le situazioni patetiche, il complesso dei sentimenti amorosi, perché è essenziale capire che il Metastasio è soprattutto il poeta del teatro dei sentimenti piú che dell’azione, e questa vale ed è concepita da lui proprio in quanto sostiene la linea di sviluppo e oscillazione dei sentimenti.

E la tensione-drammatica non vive in astratte forme di eroismo e di tragicità fine a se stessa, ma si svolge in piú congeniali forme drammatico-elegiache e drammatico-patetiche, anima il gioco dei sentimenti analizzati e resi attivi, tormentati nelle spire della perplessità, delle esitazioni, dei rimorsi, sollecitati alle situazioni piú metastasiane degli addii (l’opera è aperta da «un addio», con scoperta coscienza della forza di tale caratteristica situazione) e delle dolenti constatazioni pessimistiche[40]. È il destino che avvolge e snoda la trama fino al suo esito pacificato e provoca la tormentosa e lucida vita dei sentimenti e la loro espressione patetico-melodica, che di tanto ha superato l’impasto espressivo piú approssimativo della Didone.

Già esemplare per il vero tono metastasiano e per le possibilità poetiche del suo linguaggio è tutto il i Atto in cui l’apertura patetica su di un lungo addio fra i due innamorati Arbace e Mandane avvia convenientemente, in accordo col clima doloroso e suggestivo di una notte di orrore e di pene, evocata da una nota densa e sobria («questa notte funesta infra i silenzi e l’ombre»), una serie di scene ben disegnate e convincenti che presentano tutti i personaggi in azione e vibrazione patetica sulla spinta di due delitti provocati dalla volontà di Artabano, ma le cui conseguenze a un certo punto a lui sfuggono di mano: e divengono una forza superiore che coinvolge nelle sue spire tormentose tutti i personaggi e lo stesso Artabano. E la sua conversione da machiavellico spietato a vittima del destino è operata sottilmente puntando sulla sua qualità di padre, sulla sua particolare riserva di affetti che rende anche lui un «perplesso», un irresoluto straziato dalla difficoltà di salvare se stesso, la propria opera ma soprattutto quel figlio che lo affascina con la sua diversità generosa («Io l’amo appunto / perché non mi somiglia») e scatena anche in lui quella vita psicologica piú schietta che è il vero regno della poesia metastasiana.

Nell’opera, certamente una delle piú suggestive del poeta, anche l’accordo recitativo-aria trova la sua forza espressiva, la sua ricchezza sobria di immagini che svolgono, al di là di ogni semplice «bravura», il riferimento fantastico del nucleo sentimentale.

Come nel finale del I Atto, quando la disperazione di Arbace, il personaggio piú finemente realizzato, si risolve nella rappresentazione del mare crudele in tempesta a cui è egli consegnato «senza vele e senza sarte», mentre «freme l’onda e il mar s’imbruna» (sobrie immagini private di ogni colore eccessivo, condotte ad una sorta di eletta popolarità e pur suggestive e creatrici di un tono fantastico, di una visione nitida e poetica). O nella celebre aria di Megabize, innamorato infelice di Semira:

Ah che ’l fuggir non giova. Io porto in seno

l’immagine di te; quest’alma, avvezza

d’appresso a vagheggiarti, ancor da lungi

ti vagheggia, ben mio. Quando il costume

si converte in natura,

l’alma quel che non ha sogna e figura.

Sogna il guerrier le schiere,

le selve il cacciator,

e sogna il pescator

le reti e l’amo.

Sopito in dolce oblio,

sogno pur io cosí

colei, che tutto il dí

sospiro e chiamo.[41]

L’estrema lucidità di brevissime battute dilemmatiche, la perfetta eleganza sensibile di volute del recitativo che in poche parole sigillano un motivo comune, la profilata nitidezza di immagini e canto delle arie concorrono nell’altezza di tono di quest’opera, ponte di passaggio fra le prove precedenti e la zona della piena maturità metastasiana, a cui essa offre il solido terreno di un linguaggio e di una tecnica già in gran parte formati e il congegno di una trama adeguata (pur con cadute, incrinature e articolazioni meno perfette) al tessuto lirico-patetico che senza di quella non avrebbe trovato modo di esprimersi, ribadendo cosí l’assurdità del giudizio di quanti vollero Metastasio poeta solo delle «arie» o lirico malgrado il suo singolare, ma essenziale impianto teatrale.

6. I capolavori del periodo viennese

Nel diagramma dell’attività metastasiana i primi anni viennesi si precisano come un momento breve ma intenso di equilibrio storico e di intensità personale in cui esperienza e fantasia, poetica e poesia si commisurano saldamente per poi rapidamente squilibrarsi verso un prevalere delle intenzioni piú pedagogiche, legate al nuovo ambiente viennese, piú astratto, internazionale, aristocratico, degli schemi tragici privati della forza del patetico in ciò che esso comportava di piú moderno e popolare, e in un progressivo distacco del poeta dalla corrente viva del tempo quanto piú questo volge a nuovi ideali di fronte a cui il Metastasio si fa sempre piú scettico, laudator temporis acti, e addirittura conservatore e reazionario.

In questo stesso periodo va poi individuata, sulla base generale indicata, un’ultima articolazione interna: la prova intensa del Demetrio, le battute piú incerte e le verifiche, anche a contrasto, della misura melodrammatica dell’Isippile e dell’Adriano in Siria, e poi i due capolavori dell’Olimpiade e del Demofoonte.

Nel Demetrio ciò che soprattutto colpisce il lettore è l’evidenza piú forte di quel segreto personaggio melodrammatico che è il destino, con la sua azione chiusa entro la misura di un tempo serrato e incalzante (il giorno decisivo e insuperabile), e riflessa nelle reazioni di personaggi teatrali. Senso del destino che domina soprattutto poeticamente la vita del personaggio piú sottilmente indagato e realizzato, Cleonice, quasi una Didone meno impetuosa, ma piú intima e veramente metastasiana, in cui la perplessità è divenuta il punto limite di un moto complesso dell’anima.

Coerentemente a questa cresciuta sicurezza del modulo melodrammatico e del suo senso poetico crescono l’acutezza psicologica e la sua resa stilistica e la tecnica del dialogo, del monologo, con novità d’impostazione che non sono trovate esterne, ma corrispondono al maggior premere e articolarsi della situazione patetica in tutte le volute complesse della linea melodrammatica.

Cosí una scena si apre ex abrupto con un’invocazione di Cleonice all’amato assente, in cui la forza emotiva dell’«invano», ripetuto fra gli interrogativi ansiosi, si fonde, entro avvii di dialogo, con la prefigurazione perplessa, e siglata dal «forse», della ripetuta speranza di un lieto ritorno:

Alceste, amato Alceste,

dove sei? Non mi ascolti? In van ti chiamo;

t’attendo in van. Barsene (a Barsene che sopraggiunge)

qualche lieta novella

mi rechi forse? Il mio diletto Alceste

forse tornò?[42]

Cosí si precisa nel recitativo la capacità di caratterizzare i personaggi descritti ed evocati dalle parole altrui, come da interne ed attive didascalie. E si veda, in proposito, come nelle parole di Olinto, all’inizio della tragedia, si profila la figura ansiosa e melanconica di Cleonice con le sue inquietudini istintive e accentuate come pretesto di ritardo alla decisione delle nozze aborrite:

E non risolvi ancor. Di tua dimora

quando un sogno funesto,

quando un infausto dí timida accusi.

Or dici che vedesti

a destra balenar: or che su l’ara

sorse obliqua la fiamma: or che i tuoi sonni

ruppe d’augel notturno il mesto canto:

or che dagli occhi tuoi

cadde improvviso e involontario il pianto.[43]

E cresce l’arte metastasiana della pausa che, attraverso il parlare (si ricordi il precetto metastasiano di «tutto parli»), coinvolge il gestire, il movimento del personaggio e il procedere della favola esterna e dell’interna favola dei sentimenti, la tecnica delle inversioni, delle ripetizioni, dei chiasmi che puntano sulla preminenza delle parole piú sensibili e piú sensibilmente attive.

Mentre all’accresciuta forza e delicata tensione ed articolazione degli approfondimenti elegiaci e delle aperture idilliche corrisponde l’ulteriore maturazione e selezione del linguaggio intorno ai suoi avverbi e preposizioni e congiunzioni tematiche («in vano», «pur troppo», «mai piú», «forse», «chi sa», «e se»), intorno alle situazioni degli incontri e degli addii, magari nuovamente configurati nella lenta, perplessa stesura di una lettera di congedo necessario e struggente come alla fine della scena 5 del II Atto. E si moltiplicano gli «addii» entro la compagine del melodramma, a coagulare il senso piú interno del destino infelice e della vibrazione del cuore innamorato. E cosí, specie al culmine della linea patetica nella sua piena dolorosa sensibilità, sgorgano limpidi e melodici versi vibranti di elegia e sospirosa densità sentimentale, si snoda l’accordo fra recitativi e aria, escluse ormai del tutto le arie di «bravura» e distribuita la sentenziosità morale piú convenientemente entro le arie ed entro i recitativi[44]. Con tutta una superiore maturità di linguaggio che giunge a quella mèta di semplicità e di eleganza cui il Metastasio tendeva, a forza di scelta, di riduzione, di condensazione, di sviluppo interno, di rastremazione dell’immaginosità, del colore, del sonoro, in una misura eccellente in cui spesso un aggettivo con la sua collocazione basta a portare la desiderata vibrazione, un interrogativo basta a rialzare la voluta patetica, un contrasto di verbi basta a delineare una situazione dolorosa fra libertà e necessità.

Linguaggio di cui è esempio particolarmente probante il recitativo di Cleonice nella scena 3 del III Atto, che insieme propone, a questa altezza di maturità, la forza e il significato dell’idillio arcadico entro l’attiva visione melodrammatica del Metastasio:

Cleonice (che accetta di lasciare la reggia per vivere la condizione pastorale di Alceste):

Nel tuo povero albergo

quella pace godrò che in regio tetto

lunge da te questo mio cor non gode.

Là non avrò custode

che vegliando assicuri i miei riposi;

ma i sospetti gelosi

alle placide notti

non verranno a recar sonni interrotti.

Non fumeran le mense

di rari cibi in lucid’oro accolti;

ma i frutti, ai rami tolti

di propria man, non porteranno, aspersi

d’incognito veleno,

sconosciuta la morte in questo seno.

Andrò dal monte al prato,

ma con Alceste a lato;

scorrerò le foreste

ma sarà meco Alceste. E sempre il sole,

quando tramonta e l’occidente adorna,

con te mi lascerà,

con te mi troverà, quando ritorna.

Prove minori fra Demetrio e i capolavori del ’33 sono l’Isippile e l’Adriano in Siria. La prima porta, entro un clima mitico favoloso (in cui la storia penetra attraverso l’elemento moderno del patetico, del gentile, dell’educata moralità), il tentativo di sviluppare una vicenda sentimentale estremamente borghese e familiare fin quasi ai limiti di un dramma larmoyant. Mentre l’Adriano in Siria, piú ricco ed ambizioso, torna a provare il meccanismo eroico-cortigiano, il tema dell’«anima bella» regale entro il clima romano imperiale piú adatto alla corte viennese, con l’inerente ricorso ai cori solenni e bellicoso-trionfali, e pure sviluppa ulteriormente, specie nel personaggio di Sabina, amante infelice di Adriano (infelice, al solito, finché il provvidenziale destino ristabilisce i diritti del cuore e della virtú), una ricca vena patetico-elegiaca.

L’una e l’altra opera preannunciano temi e soluzioni che trovano una vera fusione nell’Olimpiade, che è certo il frutto piú maturo e perfetto dell’assiduo svolgimento metastasiano, del suo progresso tecnico, del suo lavoro sul linguaggio, sullo sviluppo degli affetti e delle situazioni patetiche. Ed essa, illuminata dalla consapevolezza e dalla partecipazione commossa e lucida del poeta a questa sua «favola e sogno», si distingue dalle opere precedenti soprattutto per l’armonia che tutta la unifica e l’articola, per la misura e il concorso coerente di tutti i piú elaborati procedimenti teatrali e poetici di tutti gli elementi costitutivi del melodramma metastasiano. Sulle volute nitide e precise del diagramma fabulatorio, sugli scatti perfetti e pur non meccanici di quello che sembra un congegno a orologeria di suprema perfezione, la materia sentimentale-poetica, che si era venuta approfondendo e arricchendo nelle opere precedenti, sgorga e circola senza soste, senza vuoti, senza lungaggini, disponendosi nella solita spirale ondeggiante di peripezie e difficoltà sino al sereno sfocio finale nel dolce porto del lieto fine, cosí luminoso e coerente alla tensione patetico-drammatica che lo prepara e ne motiva il lieve empito di soddisfatta, intera risoluzione idillica: vero trionfo della interpretazione metastasiana dell’animo arcadico-razionalistico e del suo gusto rococò non ancora spinto alle sue versioni piú brillanti, piú edonistiche, piú figurative e sensuali.

La stessa scelta dell’argomento appare ben coerente all’ispirazione migliore del Metastasio. Qui non la «storia» greca o romana con le sue tentazioni di solennità, ma una zona di mito favoloso e familiare in cui il decoro classico e regale è ridotto ad una stilizzazione sommaria, ad un gradino di livello nobilitante indispensabile alla poetica metastasiana, che cerca soggetti nobili al livello massimo della sua concezione del melodramma-tragedia e della sua stessa visione sociale che ha al suo culmine la corte ed i principi, come alla sua base è la semplicità e l’innocenza pastorale: in mezzo c’è il vuoto, anche se poi i suoi personaggi vivono le aspirazioni e i sentimenti di un ambiente borghese e borghese-aristocratico qual è quello dell’Arcadia e della piú diretta esperienza metastasiana.

Assenti del tutto sono i personaggi «malvagi», con una perdita di contrasto drammatico e di complessità della rappresentazione umana che si risolve positivamente in un’opera come quella del Metastasio. Dato che questa, nella sua formula piú caratteristica, cerca una condizione di omogeneità, di «simpatia» dei personaggi, riserbando al destino la funzione di ostacolo, di rinvio della felicità e dell’accordo di tutti, e risolvendo la vita, tutt’altro che monotona e vuota, dei personaggi, nelle loro vibrazioni affettuose e dolorose, nel loro tormento e piacere sotto l’inflessione del destino e delle peripezie, nella loro tensione di comunicazione e di affetti.

Tutti i personaggi dell’Olimpiade vivono di una fondamentale gamma di motivi d’affetto, fra amore, affetto paterno, amicizia, simpatia della saggezza senile per la fervida vita sentimentale dei giovani, e in questa precisa scelta della centralità del motivo amoroso l’opera trova la sua compattezza e la sua singolare verità, sottratta al paragone rischioso della drammaticità e della verisimiglianza a livello tragico. Una rilettura storica dell’Olimpiade convince facilmente della bellezza di questo piccolo capolavoro, tutto filato in un ritmo infallibile, dosato in ogni partecipazione di voce, senza la minima incrinatura fra recitativi ed arie, concretato in un linguaggio chiaro e tenero, che corrisponde a questo mondo giovanile, candido, patetico, a questa favola che si svolge fusa ed armonica, entro la quale le situazioni patetiche s’intrecciano e si distendono fino allo scioglimento finale.

Già nel I Atto comincia a svolgersi la complicata situazione: Licida, amato da Argene, ama Aristea; che invece ama, riamata, Megacle. Argene, travestita da pastorella, espone ad Aristea il suo infelice amore e riceve da questa le sue confidenze amorose. Nel pieno di queste espansioni fra le due fanciulle s’inserisce il re Clistene, padre di Aristea, che, annunciando la partecipazione di Licida alle gare olimpiche per la conquista di Aristea, sollecita l’intreccio della gelosia di Argene e del dolore di Aristea. Poi tutto si complica con la sostituzione volontaria di Megacle a Licida nella prossima gara. Sí che, quando Megacle si trova con Aristea, le sue reticenze originate dall’impegno preso con l’amico generano nella fanciulla il gelo del dubbio.

Poi nel II Atto il diagramma poetico sale alla sua voluta piú intensa, allorché Aristea, compiaciuta della vittoria dell’amato, crede ormai di essere sua sposa, mentre egli ben sa di aver vinto per Licida. La spiegazione provoca una nuova onda di affetti fra la fermezza disperata di Megacle, irrorata di espressioni di amore, e la resistenza di Aristea che trova gli accenti piú appassionati, sin che la rivelazione che quello è l’ultimo addio (Metastasio poeta degli addii, dei «mai piú», la cui forza supera quella del ritrovarsi e dell’unione felice pur indispensabile al suo melodramma) provoca lo svenimento di Aristea e l’affannato, confuso monologo del disperato Megacle e – sull’arrivo di Licida e sull’esitazione di Megacle fra decisioni di partenza e volontà di consolazione e di ultimo colloquio con Aristea – la celebre aria. Certo la piú bella del Metastasio, la piú complessa, che serba la forza di svolgimento del recitativo, della sua disposizione di dialogo, qui raddoppiato nel rimando incantevole del personaggio svenuto, e la esalta in un canto limpido e vibrante che lascia cadere le ultime note, disposte in una successione di ripetizione intensificativa, in una loro assolutezza di allusioni alla situazione patetica precisa: l’assolutezza del bene perduto, la perentorietà del distacco, lo struggente sentimento della disperata solitudine in cui l’amato rimane:

Io vado... (tornando indietro)

Deh pensa ad Aristea. (partendo) (Che dirà mai

quando in sé tornerà? (si ferma) Tutte ho presenti,

tutte le smanie sue) Licida, ah! senti.

Se cerca, se dice:

«L’amico dov’è?»

«L’amico infelice»

rispondi, «morí».

Ah! no, sí gran duolo

non darle per me:

rispondi, ma solo:

«Piangendo partí» .

Che abisso di pene,

lasciare il suo bene,

lasciarlo per sempre,

lasciarlo cosí.[45]

Né l’atto si conclude con questa scena, ma con la disperazione di Licida, che ormai ha compreso le conseguenze del suo inutile amore e che nel monologo finale svolge il folto ingorgo dei suoi contrastanti sentimenti.

Nel III Atto, superate varie situazioni drammatiche o patetiche: il tentativo di regicidio del disperato Licida (che crede morto Megacle), il presentimento che il re Clistene ha del legame paterno con lui, il commiato supremo fra i due amici

(Ma molto innanzi,

Licida, non andrai: noi passeremo

ombre amiche indivise il guado estremo);

Argene si rivela per principessa e promessa sposa di Licida, questi è identificato come figlio di Clistene e, sulla ultima increspatura drammatica del persistere di questo nella condanna del figlio, la voce risolutiva della saggezza popolare, voce della natura, della ragione e del destino provvidenziale, spiana ogni intralcio al lieto fine radioso e assoluto.

Anche il Demofoonte corrisponde a questo momento di supremo equilibrio creativo e, se l’armonia dell’Olimpiade è piú circolare e sicura e, in tal senso, la sua esemplarità può dirsi assoluta, nella nuova opera il Metastasio ha immesso una forza patetica ancora maggiore, ha tentato, riuscendovi, di muovere un diagramma melodrammatico piú complesso, una oscillazione piú violenta che fa affiorare momenti ed elementi piú drammatici, dando al lieto fine come un fulgore piú vivido e luminoso.

E seppur non raggiunge l’accordo di voci che egli ha attinto nel duetto d’addio dell’Olimpiade, il poeta sa caricare i due protagonisti di un impeto affettuoso piú complesso e vario, quasi piú moderno, borghese, drammatico: l’amore istintivo, vittorioso, che non può smentire la sua forza, la santità della natura, al di sopra di ogni ostacolo, addirittura al di sopra dell’orrore dell’incesto.

Alla vicenda amorosa di Dircea e Timante, piú alta, matura, sofferta, si contrappone quella piú esile e gentile di Cherinto e Creusa che porta nel melodramma un’aria di freschezza incantevole con qualche iridatura di lieve e sottile ironia, entro una versione del tema fondamentale della invincibilità e della libertà dell’amore. Essenziale, e tutta da rileggere, come ricca impostazione dei due personaggi minori e svolgimento della loro caratterizzazione ingenua e giovanile fra patetismo e ironia, è la scena 5 del i Atto. Sullo sfondo lieto del porto in festa si svolge questa sottile, delicatissima commediola patetica con il suo giuoco di alternarsi sfasato dei pronunciamenti d’amore dei due personaggi, con l’avanzarsi e indietreggiare di Cherinto, a cui corrispondono le ripulse falsamente sdegnate e le sollecitazioni patetiche e maliziose (quando l’innamorato si fa troppo timido) di Creusa, incantevole figurina di fanciulla capricciosa, altera, presa, fra civetteria e istinto, nel giuoco patetico.

Fra i personaggi metastasiani questi del Demofoonte appaiono forse i meglio impostati, con il loro incontro di giovinezza e di maturità, di serietà e di slancio, di passione amorosa e di fedeltà coniugale insaporita dal carattere della sua segretezza, in una atmosfera che, pur colorata dalla loro qualità principesco-mitica, e dalla loro dignità teatrale-sociale, ha caratteri chiaramente moderni, borghesi, familiari. Solo il mito poteva permettere il giuoco delle agnizioni, che coinvolge la soluzione felice della situazione amorosa centrale, nello spostamento delle vere condizioni dinastiche della famiglia regale. Ma il vero dramma è un dramma amoroso e privato, un dramma di rapporti affettivi coniugali a cui è essenziale lo scavo maggiore dei due protagonisti, la loro personificazione, piú del solito particolareggiata.

Fra i personaggi, il piú caratterizzato è Dircea con la sua purezza ed esperienza coniugale, oppressa da una colpa non sua, con una forza di generosità accordata ai precisi affetti di sposa e di madre. La sua voce affettuosa ed elegiaca s’incontra con quella piú virile di Timante, in gara di amore altruistico, come nella fine della scena 10 del II Atto:

Dircea:

Non sdegnarti,

signor, con lui: son io la rea; son queste

infelici sembianze. Io fui, che troppo

mi studiai di piacergli; io lo sedussi

con lusinghe ad amarmi; io lo sforzai

al vietato imeneo con le frequenti

lagrime insidiose.

Timante:

Ah! non è vero:

non crederle, signor. Diversa affatto

è l’istoria dolente. È colpa mia

la sua condescendenza. Ogni opra, ogni arte

ho posta in uso. Ella da sé lontano

mi scacciò mille volte; e mille volte

feci ritorno a lei. Pregai, promisi,

costrinsi, minacciai. Ridotto al fine

mi vide al caso estremo: in faccia a lei

questa man disperata il ferro strinse,

volli ferirmi; e la pietà la vinse.

Dircea:

E pur...

Demofoonte:

Tacete! (un non so che mi serpe

di tenero nel cor, che, in mezzo all’ira,

vorrebbe indebolirmi)...

La forza patetico-drammatica addensata nei primi due atti trova il suo culmine nel III Atto, limpido nella sua articolazione, piú energico, scosso da un impeto piú amaro nella rivelazione che Dircea è sorella del suo sposo (ma il solo Timante custodisce il tremendo segreto). Su questo motivo si snodano varie scene, creando, nelle volute del melodramma, il dramma piú intenso di cui il Metastasio sia stato capace, in cui è riuscito ad esprimere i moti piú sottili di una psicologia amorosa generale, e a far vivere la suprema fede nella invincibilità dell’amore malgrado la condanna della ragione e della morale. Infine tutto rientrerà nel solco piú normale, con l’agnizione finale che restituisce all’amore di Dircea e di Timante la sua liceità e la sua santità naturale e sociale.

Al solito tutto ciò si sviluppa entro una finzione a suo modo assoluta, con un ricorso doppio al procedimento dell’agnizione entro una favola che occorre accettare dall’interno della sua logica, ma cosí insaporita di realtà di affetti e di stati d’animo, cosí perfettamente funzionale alla linea interna dell’oscillazione del destino e delle situazioni, cosí fertile di situazioni e di vivi pretesti di tensione, di sospensione drammatica, di brivido rasserenato, che l’improbabilità esterna si risolve in una perfetta coerenza e organicità interna, confermando la vittoria del poeta che crea dimensioni di verità sentimentale proprio accettando al massimo il piano del verisimile «teatrale», la logica di una favola che ha in se stessa le sue ragioni e la sua realtà. Sicché al lettore non resta che prendere o lasciare sin dall’inizio. Ma se accetta il giuoco iniziale egli è immesso in una linea poetica a suo modo saldissima e non può ridestarsi al paragone con la verità esterna se non quando il giuoco è finito e quando, accettata la convenzione melodrammatica, egli si trova arricchito dall’esperienza che ha fatto di un mondo poetico-storico cosí pienamente espresso. «Sogni e favole fingo», ma in quei sogni e in quelle favole circola pure la vita, una vita storica e poetica anche se trasferita in un regno illusorio ma lucido e vitale, che è il corrispettivo piú alto della tendenza poetica di un’epoca razionalnaturale, ibrida di fantasia e ragione, ma in cui questi elementi hanno trovato una loro dosatura e fusione eccellente entro una sicura abilità teatrale. E se si potrà provare il desiderio di piú fantasia e di piú verità (e il secolo stesso seguí questo bisogno nelle sue nuove esigenze fra illuminismo e preromanticismo), non si può negare realtà e dignità poetica a questo mondo se non rifiutandolo in blocco (come si poté in una diversa situazione storica), ma non senza la perdita di un’esperienza che ha avuto la sua realtà e la sua funzione. E che, a ben guardare, ha pure avuto (si pensi ancora una volta al Leopardi e alla sua ammirazione tutt’altro che irrazionale per Metastasio) un suo posto nella storia della poesia e della sensibilità, ha nutrito ed educato generazioni intere e introdotto nella poesia e nel linguaggio poetico elementi incancellabili di densità e finezza affettiva pur nella versione particolare del patetico e in una dimensione che tocca il dramma senza risolversi in aperta, radicale tragedia.

Da quest’ultimo punto di vista è essenziale per la diagnosi definitiva della poesia metastasiana tutto lo sviluppo del Demofoonte, e soprattutto la sua ultima parte, in cui si addensa lo sforzo piú drammatico dell’opera e il diagramma melodrammatico si complica, si aggroviglia e si scioglie per due volte con un’oscillazione insolitamente piú energica, con un’alternanza di felicità e di orrore che rappresenta il massimo di tensione cui il Metastasio poteva giungere senza infrangere la sua fondamentale misura e i suoi stessi ideali poetici, umani, pedagogici e socievoli.

A questo periodo felice appartengono anche numerose cantate che, su una direzione minore, intermedia fra rappresentazione e lirica, sono caratterizzate, rispetto ai melodrammi, da una maggiore espansione immaginosa e melodica, sia per spunti piú chiaramente rococò o di scherzo galante (Il nido degli amori), sia per avvii di sensistica descrittiva (La cioccolata, Il tabacco), sia come riserva di piú aperta immaginosità melodica.

Ma soprattutto appartiene a questo periodo il capolavoro canzonettistico La libertà, un vero e proprio piccolo melodramma trasportato nelle forme della canzonetta arcadica.

In essa vi è una sicura trama di svolgimento di situazione psicologica, suddivisa in tre parti: la prima (strofe 1-6) svolge il tema della libertà; la seconda (strofe 7-9) quello della persistenza del fascino della donna, incrinato dal nuovo sentimento; la terza (strofe 10-13) è una risoluta riaffermazione della conquista della libertà.

Ogni battuta fa procedere la situazione e tutto si articola fra pause e trapassi e legami con una esile, ma salda, elastica continuità. E la varietà delle impostazioni (a chiasmo, a ripetizione, a contrasto, a dialogo e monologo), la forza delle outrances («la barbara catena / che trascinava un dí»), la concisione del paragone centrale dell’uccellino, e quella finale del guerriero e dello schiavo, la essenzialità emblematica degli elementi di paesaggio (la selva, il colle, il prato) si fondono in una estrema coerenza di linea, di mezzi tecnici, di linguaggio, sull’onda premente del sentimento patetico-gioioso insaporito dai ricordi dell’amore passato, negato e colpito con fine forza ironica e insieme rievocato con tutto il suo fascino.

Non questo è il piú vero ritmo metastasiano, piú pastoso, fluido, morbido, ma questa impennata piú ritmica e lirica raccoglie pure quanto di scatto e di brio inventivo e sin di humour ironico si celava nei recitativi e nelle arie dei melodrammi.

7. Il lento declino della poesia

Il lettore impaziente potrebbe anche far punto qui, con l’anno dell’Olimpiade, del Demofoonte e della Libertà; ché, in seguito, la parabola metastasiana volge certamente al declino. E tuttavia quest’ultimo periodo non è privo d’interesse, ai fini di una ricostruzione intera del ritratto del Metastasio, sia per particolari risultati (si pensi almeno alla canzonetta La partenza), sia soprattutto per le nuove soluzioni tecnico-teatrali che esso presenta. Impegno scenico e tecnico che si accompagna a quella attività critica di giustificazione del melodramma e della propria opera, che abbiamo considerata nel capitolo sulla poetica, ma che andrebbe ricollocata nella fase piú tarda e senile di autodifesa e di autochiarimento a posteriori.

E d’altra parte il lungo declino ha fasi che vanno scandite entro la generale curva di minore felicità interna, fuori ormai della piú vera zona feconda dell’Arcadia razionalistica e rococò.

Una prima fase è quella che va dalla Clemenza di Tito (1734) all’Attilio Regolo (1740) e congloba direzioni ed esperienze diverse. Da una parte il notevolissimo divertimento teatrale delle Cinesi, che è prova dello spirito ironico e comico metastasiano divenuto, rispetto all’impeto comico dell’Impresario delle Canarie, piú sottile e aristocratico, ma ancora ben capace di una linea sinuosa e nitida, e di una felicità di humour intelligente nella parodia di direzioni melodrammatiche tragiche, pastorali, comiche, con battute che han sapore di autocritica: come quella riguardante lo stile tragico.

Infatti proprio sullo stile tragico puntava in quel periodo il Metastasio accettando il suo compito di educatore di una élite di corte. Rispetto alla quale egli proponeva ideali di fedeltà estrema dei sudditi e di estrema magnanimità dei regnanti, con un singolare recupero, in tal direzione, delle virtú imperiali e repubblicane romane e greche. E insieme cercava di ricavare da situazioni tragiche ed estreme il massimo di contrasto di affetti, piú che nel modulo piú suo di speranze e timori, in quello di dovere e piacere, di virtú e sentimento, irrigiditi ed estremizzati rispetto al loro uso piú funzionale agli elementi patetici, amorosi, e al tono drammatico a fondo idillico-elegiaco, e con una maggior difficoltà di risoluzione di canto melodrammatico.

Tali le caratteristiche della Clemenza di Tito (1734), del Temistocle (1736) e dell’Attilio Regolo (1740), opere in cui la drammaticità eroica del Metastasio è nella linea di quell’eroismo astratto, portato fino al paradosso, che si può ritrovare poi in certo teatro gesuitico[46]. Il sacrificio, l’altruismo, la costanza nelle virtú dei nuovi eroi metastasiani sono sempre chiaramente legati ad un tipico giudizio del mondo, ad un paragone della posterità. Sicché l’ansia di gloria si risolve in una gara e in una soddisfazione esteriore, piú affermazione teatrale di attore (teatro il mondo) che motivo intimo e veramente morale.

Tale è la preoccupazione di Tito:

Or che diranno

i posteri di noi? Diran che in Tito

si stancò la clemenza...

Ah! non si lasci

il solito cammin.[47]

Congiuran gli astri,

cred’io, per obbligarmi, a mio dispetto,

a diventar crudel. No! Non avranno

questo trionfo. A sostener la gara

già s’impegnò la mia virtú. Vediamo

se piú costante sia

l’altrui perfidia o la clemenza mia.[48]

Nella Clemenza di Tito l’impegno del titolo è portato sino in fondo di fronte alla «scelleratezza» molto debole, confusa e riscattabile di altri personaggi. Laddove nel Temistocle la virtú del protagonista si incontra con quella del magnanimo Serse ed esse confluiscono nel supremo paradigma regale (Carlo VI, mescolanza di Serse e di Temistocle), come spiega la licenza. Mentre l’elemento amoroso passa in seconda linea e funziona solo come materia su cui esercitare il dominio e la vittoria della ragione e del dovere portati in piena luce.

Su questa strada piú diretta al dramma eroico e storico-classico, il Metastasio giunse, nel ’40, all’Attilio Regolo: certo il piú aderente al suo impegno di dramma tragico-eroico e il piú povero di risonanze amorose. Costruito con innegabile ed alta abilità, il dramma si risolve in una frigida e ampollosa gara dell’eroe protagonista, schematico ed autoesaltantesi nel mito della propria virtú e della gloria:

Non perdo la calma

fra’ ceppi o gli allori:

non va sino all’alma

la mia servitú.

Combatte i rigori

di sorte incostante

in vario sembiante

l’istessa virtú.[49]

Dramma velleitario, dunque, di cui rimane e vive solo la graziosa figuretta della cartaginese Barce, l’unica che resta immune dal contagio dell’eroismo e che esprime il senso piú schietto di un’umanità media e concreta di fronte al furore libresco dell’eroismo romano, che essa cosí limpidamente definisce nella sua vera esteriorità:

Che strane idee questa produce in Roma

avidità di lode! Invidia i ceppi

Manlio del suo rival; Regolo aborre

la pubblica pietà: la figlia esulta

nello scempio del padre! E Publio... Ah! questo

è caso inver che ogni credenza eccede:

e Publio, ebro d’onor, m’ama e mi cede!

Ceder l’amato oggetto,

né spargere un sospiro,

sarà virtú, l’ammiro;

ma non la curo in me.

Di gloria un’ombra vana

in Roma è il solo affetto;

ma l’alma mia romana,

lode agli Dei, non è.[50]

Altrettanto e anche piú lontani dalla vera poesia del Metastasio risultano gli oratori e le azioni sacre, composte pure in questo periodo. Opere incerte tra freddezza, astrattezza, solennità e dolciastra pietas idillica, anche se talvolta non privi di abilità teatrale e di qualche traccia poetica piú commossa: come, ad esempio, nella Morte di Abele la parlata di Eva che vede ritornare Caino solo e furtivo e comincia a trepidare per un presentimento orribile, o, nell’Isacco figura del Redentore, di nuovo qualche scena di trepidazione materna (all’inizio della Parte ii).

Veri e propri trattatelli di morale e di poetica didascalica sono poi quelle azioni e feste teatrali viennesi (Alcide al bivio, Il Parnaso accusato e difeso ecc.), in cui l’azione didascalica-cortigiana si sviluppa anche piú chiaramente di quanto avvenga nei melodrammi.

Qualche nota piú intensa del tardo Metastasio si potrà ancora ricercare negli ultimi melodrammi: non nel debolissimo Achille in Sciro, ma, per esempio, nel Ciro riconosciuto, che ha scene e soprattutto recitativi ancora esemplari per la nitidezza del disegno psicologico dei contrasti e dei tormenti del cuore, come nel monologo di Mandane nella scena 3 del II Atto e come nella parlata di Arpalice nella scena 2 del III Atto.

Ricca di nuovi tagli di scena drammatica è pure la Zenobia, centrata sulla tensione amorosa e amorosa-virtuosa della protagonista combattuta tra un primo amore abbandonato per obbedienza al padre e l’amore sgorgato dalla fedeltà per lo sposo entro una complicata peripezia di lotte per il trono e per il possesso di Zenobia fra Radamisto, Zapiro e Tiridate.

A distanza di alcuni anni, nel 1744, l’impostazione avviata nella Zenobia viene ripresa nell’Ipermestra e nell’Antigono, che piú chiaramente tendono a ricondurre l’impostazione virtuosa-magnanima al regno degli affetti familiari ed amorosi pur in una maggiore ricerca di dramma. Opere positivamente vivificate da alcune mosse drammatiche che esteriormente richiamano alla mente versi e particolari alfieriani, ma in cui troppo spesso l’espansione patetica si fa eccessiva e diluita e viceversa manca l’omogeneità piú vera tra le situazioni e il filo d’azione che le lega, il rapporto fra il cresciuto piano drammatico e una costante altezza di tono.

E cosí la musicalità che ancora affiora nell’Antigono va però separandosi dalla sua funzione melodrammatica e si isola, con raro sgorgo, nelle tarde cantate (come l’Aurora, del ’59, piena di delicati accenti musicali e visivi), mentre trova un momento di eccezionale felicità, ancor negli anni che esaminiamo, nella canzonetta La partenza, del ’46. Certo anche questa non ha piú la forza e la complessità di ritmo e di scena, di svolgimento della Libertà e la sua caratteristica piú evidente è un gusto piú simmetrico e la rappresentazione successiva, senza svolte precise, del «fiero istante» e del ritornello invariato che ne suggella con un sospiro elegiaco e dubitativo la frattura senza speranza:

e tu chi sa se mai

ti sovverrai di me.

Ma in questa limitazione quale finezza di accenti, quale risonanza patetico-melodica, quale sicurezza di distinzione delle variazioni sul tema, di gradazione di sentimenti recuperati entro quell’estremo lembo di un tempo psicologico, quale fascino di canto e di espressività del vario accordo fra la rappresentazione della situazione, nelle sue gradazioni di ricordo, e il ritornello invariabile: il quale tanto piú cosí approfondisce la suggestione del suo richiamo alla pena di un distacco che mette in forse anche il ricordo della donna amata. Invariabile fino all’ultima strofa in cui esso si apre sulla sospensione dell’ultimo invito alla donna, avvertito quasi inutile di fronte alla prefigurazione dolente della sua spensierata frivolezza, della sua smemoratezza e volubilità fatale, tanto piú sensibile e dolorosa proprio mentre il poeta cerca di legare ancora a sé l’amata con l’insistenza sulla propria fedeltà di memoria, sulla singolarità del suo amore disinteressato, sulla crudeltà indimenticabile dell’addio.

La problematica dell’«anima bella» legata al problema della naturale sublimità e «paternità» dei principi «legittimi» e della tendenza «sublime» di personaggi semplici, pastorali (la radice piú ingenuamente democratico-arcadica che il Metastasio non vuol rinnegare affidando al cielo il potere di far cambiare sorte senza infrangere mai il saldo ordine delle cose), viene ripresa dal Metastasio nella penultima fase della sua attività melodrammatica, fra il ’51 e il ’56, quando, con l’aiuto di una crescente varietà esterna di scenografia e di ambientazione anche «orientale» (pimento esotico assai esteriore), egli ritenta, con una sfiducia documentata dalle lettere, la via teatrale piú illustre, al di là delle feste e azioni teatrali di minor respiro.

Si tratta di tre melodrammi, Il re pastore, L’eroe cinese, la Nitteti, che segnano in maniera piú accentuata e rovinosa il declino della poesia metastasiana.

Lo sgorgo patetico si è come rattrappito e proprio nel ricalco di certi movimenti dei melodrammi piú ispirati si può cogliere l’essenziale caduta poetica del. Metastasio. Si ricordi cosí il monologo di Cleonice nel Demetrio (di cui il Re pastore è replica) e lo si confronti con questo strozzato, esausto movimento idillico di Elisa:

Fra poco

io non dovrò mai piú lasciarti: insieme

sempre il sol noi vedrà, parta o ritorni.[51]

Tutto poi converge nella esplicita morale-concettistica del titolo: i re, pastori dei loro popoli!

Mentre l’Eroe cinese ritenta il modulo dell’«inudita fedeltà» di un suddito e dell’«inudito eccesso di virtú» di un «privato» che rivela poi la sua natura principesca.

E la Nitteti (di argomento egiziano), riallacciando ancora una volta l’argomento didascalico cortigiano, in un’ultima variante (il culmine dell’«anima bella» è l’unione della maestà regale con la semplicità pastorale), con il tema amoroso, verifica su di questo il penoso sforzo del vecchio poeta di dar ancora voce alle vibrazioni, ai palpiti del cuore innamorato e tormentato dal destino avverso, in un accordo duplice di aria-recitativo-aria che indarno sollecita, nel colloquio col cuore, la ormai pigra sensibilità metastasiana:

Povero cor, tu palpiti;

né a torto in questo dí

tu palpiti cosí,

povero core!

Si tratta, oh, Dio! di perdere

per sempre il caro ben,

che di sua mano in sen

m’impresse Amore.

Troppo, ah troppo io dispero!

M’ama Samnete... è vero;

ma che potrà lo sventurato in faccia

ad un padre che alletta, a un re che sforza,

a un merto che seduce? Il grado mio,

gli altrui consigli... il suo decoro... oh Dio!

Povero cor, tu palpiti;

né a torto in questo dí

tu palpiti cosí,

povero core![52]

Qui veramente il canto interno del Metastasio è diventato un «canticchiare» (come disse il Flora per questi versi[53]) smorzato e flebile, un’eco lontana ed opaca di una voce tenera ed espressiva.

Dopo questo pallido addio al patetico e al canto della Nitteti, i «bisogni del cuore» sembrano sempre piú spegnersi, in un grigio, desolante tramonto prosastico, entro il secco diagramma virtuoso-eroico che domina le penose prove dei due drammi romani Il trionfo di Clelia e Romolo ed Ersilia e il romanzesco Ruggero.

Non giova attardarsi nella loro analisi. Tutto si è spento definitivamente e la stessa trama del recitativo sembra un traliccio bruciato e scoperto e qualche volta persino contorto e smozzicato. La morale cortigiana domina indisturbata e qualche mesto movimento pessimistico, tanto piú deciso e duro nelle lettere senili[54], non ha la forza di rompere la scorza retorica piú compatta, il monotono ritornello dell’«esaltata umanità» delle «eccelse alme romane», delle «anime grandi», capaci di «debellare» gli altri e se stesse con le loro prove di inaudita virtú.

Come stanca ed esausta giunge la voce del vecchio poeta anche quando ricalca il sentiero piú suo dei primi ricordi amorosi e ove pure, quasi in un ultimo estenuato barlume di luce, egli trova sporadicamente accenti piú suoi:

Oh Tebro, oh Roma, o care sponde, a cui

i miei primi ho fidati

amorosi sospiri, io vi abbandono;

ma la maggior vi lascio

parte del core. Oh quante volte al labbro

mi torneranno i vostri nomi! Oh, quante

su gli amati sentieri

verran di questi colli i miei pensieri![55]

Un’ultima eco di quella voce che colpí «le maître des âmes sensibles» e il grande poeta degli «idilli» elegiaci.

La piú viva sostanza metastasiana è dunque non nella ostentata magniloquenza che ha i suoi vertici nel Catone e nel Regolo, bensí nella tematica dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Olimpiade, del Demofoonte: opere in cui la libertà, i diritti e i contrasti del cuore, la catena degli affetti e la loro distinzione nitida e delicata formano un intero nucleo poetico esile, ma genuino, che fa sgorgare un canto interno idillico-elegiaco che sale dalla forza di disegno del recitativo all’effusione cristallina delle arie.

Superata come poetica dall’illuminismo, dal neoclassicismo, dal preromanticismo, la poesia metastasiana seguitò però ad alimentare, con il gusto della precisione e del canto, le poetiche settecentesche. E come l’educazione sentimentale e teatrale metastasiana fu essenziale al Settecento e moduli metastasiani rifluirono fin dentro certe zone dell’Iliade montiana, cosí anche nel preromanticismo la sensibile poesia metastasiana del cuore fu una delle forze interne della tradizione italiana. Sicché il piú grande lirico italiano dell’Ottocento, il Leopardi, ne risentí (cosí lontano ormai dalla concezione del letterato metastasiano e dalla sua visione vitale) la lezione di disegno e di canto che aveva portato al massimo di poesia possibile l’eleganza della poetica arcadica.

Non occorre qui dire con quanto antimetastasianesimo nella forza ideale, morale, fantastica dei Parini, dei Goldoni, degli Alfieri, dei Foscolo, dei Leopardi: ma certo con un rapporto non trascurabile su di una linea di razionalità e di fantasia che pur caratterizza la ben piú alta forza lucida e densa del nostro grande classicismo romantico.


1 Abbiamo in merito la testimonianza diretta dell’Autore che all’Algarotti, in una lettera del 1 agosto 1751, scriveva: «Non vi niego che un natural talento, piú dell’ordinario adattato all’armonia e alle misure, si sia palesato in me piú per tempo di quello che soglia comunemente accadere, cioè fra ’l decimo e undecimo anno dell’età mia: che questo strano fenomeno abbagliò a segno il mio gran maestro Gravina, che mi riputò e mi scelse come terreno degno della coltura d’un suo pari: che fino all’anno decimosesto, all’uso di Gorgia Leontino, mi esposi a parlare in versi su qualunque soggetto cosí d’improvviso, sa Dio come; e che Rolli, Vannini e il cavalier Perfetti, uomini allora già maturi, furono i miei contraddittori piú illustri... Questo mestiere mi divenne e grave e dannoso; grave perché, forzato dalle continue autorevoli richieste, mi conveniva correre quasi tutti i dí, e talora due volte nel giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d’una dama, ora a soddisfar la curiosità d’un illustre idiota, ora a servir di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, perdendo cosí miseramente la maggior parte del tempo necessario agli studj miei: dannoso, perché la mia debole fin d’allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente... Queste ragioni fecero risolvere Gravina a valersi di tutta la sua autorità magistrale per proibirmi rigorosamente di non far mai piú versi all’improvviso; divieto che dal decimosesto anno dell’età mia ho sempre io poi esattamente rispettato, a cui credo di essere debitore del poco di ragionevolezza e di connessione d’idee che si ritrova negli scritti mei» (Lettere, in Tutte le opere di P. M., a cura di B. Brunelli, Milano 1943-1954, III, pp. 657-659; questa edizione è stata seguita per tutte le altre citazioni, dove sarà indicata semplicemente: Opere).

2 Le ragioni di questo trasferimento egli le spiega in una lettera al conte di Aguirre del 23 dicembre 1719: «I miei domestici interessi mi trasportarono, già molti mesi sono, in Napoli, e mi ci ritenne poi la considerazione del pertinace odio che ancor si conserva in Roma non meno al nome che alla scuola tutta dell’abate Gravina, beata memoria, mio venerato Maestro. Qual odio, se non in tutto almeno in parte, si è trasfuso, e come discepolo eletto e come erede, sovra di me. Ed ancorché possa io con le mie rendite onestamente vivere in Roma, ho stimato prudente risoluzione il vivere lontano, per non vivere fra nemici» (Opere, III,p. 20).

3 Si veda la lettera a Domenico Bulgarelli (il marito della Romanina) del 13 marzo 1734, in Opere, III, pp. 101-103.

4 Opere, III, p. 611.

5 Opere, IV, p. 8.

6 «Ditemi: preferireste voi, al secolo in cui viviamo quelli per avventura che chiamansi favolosi ed eroici? Credereste felicità il trovarvi esposto agli Antifati, ai Procusti, ai Gerioni, ai Cachi, ai Tiesti e agli Atrei? Sono forse (come meno incerte) le memorie istoriche gli oggetti della vostra invidia? Ricordatevi i Mostri e le Furie ch’hanno funestati nel corso de’ loro regni i viventi in Asia, in Grecia, in Egitto. Desiderate per avventura i secoli ne’ quali i nostri Romani hanno tanto onorata l’umanità? Andate, vi prego, enumerando le loro vicende, e vedete se vi piacerebbe di far numero nella bella collezione di Romolo, di vivere sotto Tarquinio, di comprar la libertà con l’evidente pericolo d’esser distrutti, di soffrir la tirannia de’ decemviri, di trovarvi involto nelle turbolenze dei Gracchi o notato nelle proscrizioni de’ triumviri, di tremar sempre alle brutalità de’ Tiberii, de’ Neroni, de’ Caligoli, de’ Caracalli e della maggior parte degli altri Cesari? D’esser sepolto sotto le rovine dello scosso e dissipato impero romano? O sommerso dai barbari torrenti che versò il Settentrione sulle infelici nostre contrade? O smarrito e confuso fra i rischi, gli errori, l’ignoranza e le tenebre de’ secoli che quindi seguirono? Ma senza andar tanto indietro, ditemi solo se contate come piú di voi fortunati quelli da cui nacquero i nostri padri in tempi ne’ quali la gelosia, la vendetta, la violenza, il tradimento, armati di veleni, di sicari e di trabocchetti, erano le piú luminose virtú degli uomini d’alto affare?» (Opere, IV, pp. 526-527). Brano in cui andrà messa bene in rilievo la chiara presa di posizione contro le condizioni semi-feudali dell’epoca barocca, che ricollega il Metastasio agli atteggiamenti dei teorici della «pubblica felicità» e della «pubblica utilità» dell’epoca razionalistica.

7 N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, pp. 235-265.

8 Opere, II, p. 763.

9 L’origine delle leggi, in Opere, II, p. 765.

10 M.A. Aluigi, Storia dell’abate Pietro Trapassi Metastasio poeta drammatico, Assisi 1783.

11 Lettera al fratello, 28 settembre 1761: «La fermentazione che agita tutta l’Europa pare che abbia oggetto piú vasto che i Gesuiti che le servono di pretesto. L’anarchia temporale e spirituale è un pezzo che si prepara nelle spiritose massime della nostra eletta letteratura» (Opere, IV, p. 226).

12 Cfr. soprattutto le lettere al fratello (23 novembre 1767), a Sigismondo Chigi (27 giugno 1768), ad Agostino Gervasi (10 ottobre 1771), rispettivamente in Opere, IV, pp. 580-581; IV, p. 632; V, pp. 109-110.

13 Lettera allo Zanotti, 12 marzo 1778 (Opere, V, pp. 497-498).

14 Lettera al Pasquini, 27 agosto 1759 (Opere, IV, p. 103).

15 Lettera dell’8 maggio 1769 (Opere, pp. 728-729).

16 Lettera del 23 maggio 1771 (Opere, V, p. 85). Sullo Young si vedano le mie pagine nel Preromanticismo italiano, II ed., Napoli 1959, pp. 142-148.

17 Per l’Arcadia si veda la nota a p. 26 del mio libro L’Arcadia e il Metastasio, Firenze 1963. Per altri sviluppi del tema delle stagioni si veda il volume di L. De Nardis, Saint Lambert. Scienza e paesaggio nella poesia del Settecento, Roma 1961, pp. 124-126, che elenca opere e componimenti dedicati alle stagioni sino alla soglia dell’Ottocento.

18 Lettera alla Pignatelli, 23 ottobre 1749 (Opere, III, pp. 436-437).

19 Sogni e favole io fingo; e pure in carte

mentre favole e sogni orno e disegno,

in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,

che del mal che inventai piango e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,

piú saggio io sono? È l’agitato ingegno

forse allor piú tranquillo? O forse parte

da piú salda cagion l’amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle ch’io canto o scrivo

favole son: ma quanto temo o spero,

tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.

Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,

fa ch’io trovi riposo in sen del Vero!

20 Lettera al Farinelli del 12 novembre 1749 (Opere, III, pp. 437-444).

21 Sul «nazionalismo austriaco» del Metastasio si vedano le giuste osservazioni del Varese (Saggio sul Metastasio, Firenze 1950, pp. 20-21). L’Italia è, per il Metastasio, la patria della lingua, dei ricordi giovanili, della bella letteratura difesa, ove occorra, contro gli stranieri. Ma dal 1730 in poi egli si sente suddito austriaco e nulla appare piú errato delle ricerche, dal Carducci in poi, della sua italianità e del suo romanesimo in funzione prerisorgimentale. Ché la stessa esaltazione retorica degli eroi romani è per lui in funzione di un’ideale educazione della classe nobiliare imperiale e Vienna è la Roma dei tempi moderni. In questo senso non solo prevale in lui lo slogan di molti letterati settecenteschi «ubi bene, ibi patria» (e in senso, in verità, assai privato), ma il «dovere» del letterato di corte e, alla fine, la convinzione delle ragioni di un impero romano-austriaco di cui le province italiane sono felici dipendenze. La patria locale, Roma e lo Stato pontificio, hanno per lui poi scarsissima importanza, né mi pare che di un patriottismo romano-pontificio si possa davvero parlare anche nel Settecento. Roma è la capitale della Chiesa, sostegno religioso dell’omnis potestas a Deo consolidata per lui nell’impero absburgico. Ma, come dicevo, nelle relazioni delle vicende belliche prevale in genere il gusto quasi teatrale delle vicende in se stesse (cfr. lettera al fratello, 9 giugno 1760, Opere, IV, p. 145) in cui l’indifferenza personale del relatore sfiora il cinismo: «il sipario è alzato, stiamo ora attenti alla commedia». Anche se, quando la fortuna è ostile agli austriaci e la situazione si fa per loro rischiosa, non mancano espressioni sinceramente addolorate del buon suddito (cfr. lettera alla Orzoni, 10 novembre 1759, Opere, IV, pp. 119-120).

22 Cfr., per esempio, la lettera al fratello del 9 giugno 1760 (Opere, IV, p. 145).

23 Lettera del 2 novembre 1743 (Opere, III, p. 239).

24 Opere, III, p. 266.

25 Lettera al Mattei, 1 aprile 1766 (Opere, IV, pp. 453-454).

26 Lettera alla Bulgarelli, 27 gennaio 1731 (Opere, III, pp. 52-53).

27 Note alla traduzione dell’Ars poetica di Orazio, in Opere, II, pp. 1276-1278.

28 Sullo Zeno si veda la lettera a G. Bettinelli (10 giugno 1747, Opere, III, pp. 305 ss.), che difende (senza accusare lo Zeno) i propri personaggi ricchi di contrasto. L’elogio della funzione storica dello Zeno è invece nella lettera al Fabroni del 7 dicembre 1767 (Opere, IV, p. 585).

29 Estratto dell’arte poetica, in Opere, II, p. 1089.

30 Per le minute preoccupazioni linguistiche del Metastasio si rilegga la lettera all’Algarotti del 27 ottobre 1746 (Opere, III, pp. 227-281) e del 1 dicembre dello stesso anno (Opere, III, pp. 281-288) in cui convergono, con estrema coerenza e sintomaticità, le esigenze contemporanee della «decenza», della comprensibilità, dell’eufonia, della sicura e pronta semanticità delle parole (a proposito di «molla» dell’«ingegno», osserva: «per assicurarmi io ne farei pruova leggendo il passo a persona non prevenuta, ed osserverei se la parola muove l’idea che si vuole, con la necessaria sollecitudine», p. 282), dell’armonia e convenienza delle parole rispetto al contesto. Su tutto campeggia un’osservazione tipica del Metastasio e legata al suo stesso rapporto individuo-società in senso antiromantico ed arcadico: «cosí in questa come nella maggior parte delle costumanze civili, io credo impresa meno difficile l’accomodar me alla moltitudine che quella di disingannarla» (p. 280). Conformismo vile? o non piuttosto modo di adesione-interpretazione che permette poi al poeta «prudente» di immettere le sue novità in un tessuto concreto?

31 Per l’ironia del Metastasio sulla Crusca o «Tribunal della Semmola» si veda la lettera al Riva del 10 settembre 1732 (Opere, III, pp. 71-72).

32 Per il petrarchismo «esangue» ed affettato si veda la lettera all’Algarotti del 1 dicembre (Opere, III, p. 287) e, per le due espressioni citate nel testo, la lettera alla Pignatelli del 27 aprile 1761 (Opere, IV, p. 194). Per la sicurezza orgogliosa del Metastasio di essere totalmente lontano dal secentismo (e della lontananza ormai di tutta l’Italia da quella «peste») molto importante è la lettera all’Algarotti del 1 agosto 1751 (Opere, III, pp. 656-657). Un traduttore francese delle sue opere aveva accennato con compatimento a quella contaminazione della «scabbia dei concetti» che avrebbe toccato anche il Metastasio in quanto italiano. Il poeta rifiuta tale accusa per sé e per l’Italia riducendola a effetto di un contagio spagnolo nel Seicento («ma questa pianta straniera non allignò in guisa nel buon terreno d’Italia che non vi fosse, anche nel tempo che essa fioriva, chi procurasse di estirparla») e dichiarandola oramai del tutto estinta da circa mezzo secolo: «Ed è poi palpabile che da un mezzo secolo in qua non v’è barcaiolo in Venezia, non fricti ciceris emptor in Roma, né uomo cosí idiota nell’ultima Calabria o nel centro della Sicilia, che non detesti, che non condanni, che non derida questa peste che si chiama fra noi secentismo».

33 Opere, III, p. 658. Il consiglio era dato all’improvvisatore Vannini che «si lagnava che per colpa di un amore non era piú atto a far versi».

34 E si noti come il Metastasio ponesse al centro della sua tematica sentimentale proprio l’amore che Gravina e Zeno cercavano di espungere (o ridurre) dal loro mondo poetico «virtuoso» e nobile, cortigiano o civile, e riuscisse piú felice nel descrivere la mobile psicologia femminile, in cui è certo il piú vero precursore del Goldoni.

35 Esemplare in questo senso è la lunga parlata di Sofia nella scena 6 del IV Atto (Opere, II, pp. 47-49).

36 Si ricordi la lettera del 4 agosto 1734 pubblicata recentemente dal Fucilla (Nuove lettere inedite del Metastasio, in «Convivium», XXVI [1958], pp. 586 ss.) in cui il Metastasio ricorda la Bulgarelli come colei che «m’ispirò».

37 L’impresario delle Canarie, in Opere, I, pp. 64-65.

38 «Trionfando finalmente per tutto sul fuoco estinto le acque vincitrici, si rasserena improvvisamente il cielo, si dileguano le nubi, si cangia l’orrida in lieta sinfonia» (Opere, I, p. 53).

39 Didone abbandonata, Atto I, sc. 18.

40 Come la discussione fra Artabano e Arbace nella scena 2 del II Atto:

Arbace:

E questa vita, o padre,

che mai la credi?

Artabano:

Il maggior dono, o figlio,

che far possan gli dei.

Arbace:

La vita è un bene,

che, usandone, si scema: ogni momento

ch’altri ne gode, è un passo

che al termine avvicina, e dalle fasce

si comincia a morir quando si nasce.

41 Artaserse, Atto I, sc. 6.

42 Demetrio, Atto I, sc. 2.

43 Demetrio, Atto I, sc. 1.

44 Si veda nella scena 3 del II Atto il recitativo di Mitrane: «Ma da un desire estinto / germoglia un altro, e nel cambiare oggetto / non scema di vigor»... «ogni piacer sperato / è maggior che ottenuto». Frasi che fan capire la simpatia leopardiana.

45 Olimpiade, Atto II, sc. 10.

46 Nella satira I pedanti l’Alfieri fa una parodia dell’elogiatore della tragedia cantata che è chiaramente rivolta alla «falsa» tragedia metastasiana, e al falso grecismo, allo svuotamento degli «alti sensi feroci» che l’anima dell’ascoltatore beve «dormendo» e cioè senza ricavarne nessun vero stimolo attivo:

Tutta la sua tragedia in blanda forma

gli alti sensi feroci appiana e spiega,

sí che l’alma li beve e par che dorma.

47 La clemenza di Tito, Atto III, sc. 7.

48 La clemenza di Tito, Atto III, sc. 13.

49 Attilio Regolo, Atto I, sc. 8.

50 Attilio Regolo, Atto III, sc. 8.

51 Il re pastore, Atto I, sc. 1.

52 Nitteti, Atto II, sc. 1.

53 F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano 196213, vol. IV, p. 46.

54 Si vedano alcune lettere senili al fratello: «in questo sporco teatro del mondo»... «tutto è favola, caro fratello, in questo sporco teatro in cui siamo» (11 giugno 1770, 21 gennaio 1771, in Opere, V, pp. 20, 69).

55 Romolo ed Ersilia, Atto III, sc. 2.